Storia di un mattone
La mia vita fu piuttosto breve, ma mi fece conoscere il vero significato della parola terrore.
Tutto incominciò un giorno di maggio del 1940, quando venni portato insieme ad altri mattoni come me in una pianura deserta. Non vi erano alberi, solo poca erba qua e là. Ero davvero contento di servire a costruire qualcosa. Ah! Se avessi saputo prima a che scopo sarebbero servite le mie mura avrei preferito spezzarmi in due, piuttosto che farne parte. I lavori cominciarono in fretta e, entro un anno, fu costruito Auschwitz.
Era un’area delimitata da una rete spinata, dove si trovavano baracche in mattone rosso. Alcune servivano per i laboratori scientifici, altre per le mense o per i dormitori.
All’inizio dell’autunno cominciarono ad arrivare dei treni carichi di gente. C’erano uomini, donne e bambini che venivano in seguito divisi. A destra gli uomini e le donne giovani, a sinistra i bambini e gli anziani.
Solo dopo compresi l’orrore del campo. Le persone venivano trattate come animali. I bambini piccoli, subito dopo l’arrivo, venivano mandati in una specie di fabbrica. Sentii le loro voci: gridavano, poi smisero. Non li rividi più. Ci furono poi gli anziani che li seguirono. A quel punto cominciai ad avere dei dubbi.
Le persone continuavano ad arrivare, sempre più, sempre più numerose. C’erano molti nazisti ad accoglierle, con i fucili in mano.
Passarono due mesi. La gente era diventata pelle e ossa. Mi facevano paura. A volte sembravano già morti, con quegli occhi di vetro. C’erano uomini e donne macilenti e malnutriti. Alcuni indossavano un pigiama a righe, altri degli stracci al posto dei vestiti. Quel campo non serviva a far lavorare la gente, ma a torturarla. Ogni giorno almeno cento persone venivano uccise. Altrettante morivano per la fame e i patimenti. Gli uomini erano separati dalle proprie mogli, le donne non vedevano differenze tra un bambino e l’altro. Togliendo la libertà, i nazisti tolsero ai prigionieri anche l’anima. Se fossi stato al loro posto, non avrei resistito. Sarei morto molto prima. Nonostante queste torture, però, le persone non piangevano. Forse, non avevano neanche la forza per farlo… L’avrei fatto io per loro, se avessi avuto le lacrime. Le loro condizioni erano indescrivibili.
Ho avuto tanti rimpianti allora, nonostante sia stato un semplice mattone. Avrei voluto aiutare quei poveretti in qualche modo, ma potevo solo osservare la crudeltà e la violenza che subivano ogni giorno. Se potessi, descriverei Auschwitz come il trionfo della crudeltà. Milioni di persone uccise senza colpa. La loro unica colpa era quella di appartenere a una razza diversa da quella ariana.
Non riesco ad accettarlo. Non è giusto. Non capisco come facciano le persone a trattare i loro simili in questo modo terribile. Noi mattoni siamo solidali. Stiamo l’uno accanto all’altro per sorreggerci a vicenda.
La speranza delle persone di uscirne vive diventava sempre più fioca, come una candela, in ogni momento pronta a spegnersi. Molti, per non soffrire più, si gettarono sul filo spinato. Altri accettarono lavori orribili, come quello di bruciare i corpi dei loro compagni nel crematorio.
Niente può essere paragonato alla violenza che ho visto. Avrei voluto urlare «Stop!», ma ho solo l’anima, non ho la voce.
P.S. Il nostro amico è stato distrutto. I nazisti, quando hanno capito che era giunta la fine della loro follia e che i sovietici si avvicinavano al campo, hanno demolito alcune baracche, nel tentativo di nascondere la loro barbarie. Non ci sono riusciti interamente, però. Noi abbiamo sentito la solidarietà del nostro amico. Noi mattoni rimasti formiamo ancora gli edifici del campo e siamo qui a testimoniare a chi giunge come pellegrino a questo luogo di sofferenza, tutto l’orrore che ha sconvolto l’umanità.
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