Quello che va e quello che resta
Come fa una persona a capire che se ne deve andare?
C’è forse un momento in cui questo avviene?
E come è possibile, dopo averlo accettato, chissà mai se per davvero, guardare in faccia il resto dei giorni che restano, il tutto, l’immensità che diviene niente all’improvviso? Con che coraggio si riescono ad ascoltare le voci, i suoni, gli spazi che circondano, che parlano di vita, senza pensare?
È una domanda banale, che tante persone possono porsi in un giorno qualunque, senza ricevere una risposta, perché tanto non toccherà a loro. Tra queste però, come tra quelle che non vi pensano mai, un giorno qualunque capiterà, arriverà una notizia, giungerà senza preavviso, succederà, e tutto cambierà.
Può una persona accettare che il passato che c’è alle sue spalle svanisca in un battito di ciglia, senza che nulla, un oggetto, un’emozione, un sogno, nemmeno un verso restino a dimostrare l’aver vissuto?
Nessuno ha mai chiesto esplicitamente all’uomo se voleva accettare di vivere, non è mai stata concessa una scelta, pertanto ci si abitua a scorrazzare per le strade, a mangiare nei ristoranti, a correre gli anni come non fosse una gara da concludere nel migliore dei modi, ma qualcosa che durerà all’infinito. Il mondo è una piazza, più o meno affollata, in cui si resterà per sempre.
Forse è anche triste, ma certamente è curioso, che le persone si rendano conto del buono che esiste in loro soprattutto nei momenti di difficoltà, quando cioè gli viene comunicato dalla natura stessa, quella che l’ha generato, che in quella piazza potrà restare solo per poco tempo ancora. E completamente scombussolati, estraniati, stupiti, increduli, inorriditi, ci si ritrova davanti un’altra situazione a cui non si può sfuggire: la morte, un tunnel.
È in quel momento, quello che precede l’entrata, il percorso verso la fine di esso, quando ancora la speranza è una piccola fiamma che, grazie all’incredulità sembra poter sopravvivere ancora, che si ha la vera consapevolezza, viva più che mai, di ciò che si è realizzato in quel pezzo di eternità, chissà perché toccata proprio a noi; solo allora si capisce l’importanza di alcune scelte compiute e il tempo sprecato per altre mai realizzate.
Poi subentrerà la fase in cui, senza motivo (perché mai una persona dovrebbe trovarne uno?) si accetta di andare.
Andare.
Strana parola, in quanto, fatto quasi ironico, racchiude in sé due indirizzi che la vita può prendere. Andare, chissà dove, questa è la prima destinazione. È quella della vita, del singolo che passa nella piazza animata urlando a squarciagola che è mattina, che la giornata sta iniziando, è colui che andrà a bere un caffè oppure la persona che ha scelto di intraprendere un viaggio, per volare lontano, senza preoccuparsi della meta (citando Jack Kerouac: «Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare»), senza previsioni.
Insomma, è l’andare di chi si butta, con coraggio o riserve, a capofitto nella danza della vita; quest’andare non riconosce il tempo, che sembra non bastare mai. L’altro significato di questa parola, invece, rappresenta un addio imposto, indiscutibile, un ordine, proveniente da un entità indefinita, che si ripercuote sulla cosa che più identifica il singolo: il corpo.
Su di esso si riflette una volontà senza senso, e allora ci si ritrova, senza un motivo, spogli di ogni difesa, davanti a quel tunnel buio, che chissà dove condurrà, se ci sarà un’uscita. Con che armi si può entrare in quel vortice metafisico, pieno di dubbi nascosti tra le pareti indistinte e di uscite sbarrate? Si comincia a pensare, come un eroe che deve sconfiggere un leone, anche se stavolta non ci sarà vittoria, solo un punto di domanda che sembra essere piombato sulla piazza allegra, sotterrandola e schiacciandola sotto il suo peso.
Si pensa a quello che si è stati, ai luoghi in cui si è messo piede, al sogno più importante, alle occasioni sprecate, alle imprese che sembravano impossibili e ora, viste da un’altra prospettiva, appaiono dolci ostacoli. Si pensa a ciò che ha reso felici, e si sa che quelle sono le cose importanti della vita.
Felicità vuol dire realizzare un sogno, semplificare qualcosa di complicato a un gioco, appassionarsi intensamente a qualcosa, non avere paura, essere liberi. Felicità vuol dire vitalità, è l’istinto di Eros teorizzato da Freud e allo stesso tempo il fanciullino di Pascoli, che riescono a sconfiggere, anche solo per poco, la passività, dialogando con quello che conduce all’essere vivo, a una vita sfrenata fatta di piaceri o alla tranquillità di un nido familiare. La felicità si può trovare in tutto, nelle singole cose, in un oggetto, in un fiore nel deserto, nella volpe addomesticata del piccolo principe, nell’arte, nel cappuccino al mattino, nel cielo azzurro, nei capelli morbidi, negli occhi di qualcuno, in un foglio bianco, o in tutte queste cose insieme, o in altre ancora. Se felicità vuol dire libertà, allora chi si trova davanti al tunnel, prigioniero, cerca di portare con sé tutta quella che ha raccolto nella vita, perché l’accompagni in questo cammino, perché gli faccia luce, candela nella notte.
Una ragazzina di nome Anna Frank si trovò all’improvviso con la minaccia incombente della morte, antagonista mascherato con cui doveva scommettere giorno dopo giorno, nel passato, nel presente e in un ipotetico futuro. Lei trovò la felicità, sinonimo di sicurezza e svago, inizialmente nella lettura, che le permise di evadere, di alienarsi dalla condizione mortale in cui si trovava e, successivamente, cominciò a scrivere. Di lei, di quel microcosmo nascosto all’umanità, di quell’alloggio che per lei era vita, che esisteva.
Tutto diventava importante, i dettagli reali, ogni pasto, ogni abito, le acconciature, arrivando a parlare di mondi lontani, percepiti soltanto da due trasmettitori: una radio e l’immaginazione. Quest’ultima permise ad Anna di proiettarsi in una dimensione tutta sua, che la caratterizza, che le rende possibile vivere la realtà. È grazie a questa che afferma: «È davvero meraviglioso che io non abbia lasciato perdere tutti i miei ideali perché sembrano assurdi e impossibili da realizzare […] Semplicemente non posso fondare le mie speranze sulla confusione, sulla miseria e sulla morte […] Sento avvicinarsi il tuono che distruggerà anche noi, ma, se guardo il cielo lassù, penso che tutto tornerà al suo posto».
Se questo spazio limpido, di un azzurro puro, senza veli grigi, sarà presente, tutto andrà bene.
Questa triste vicenda rende consapevoli che qualcosa rimane, che sia un diario, un libro, una passione. Certe volte resta qualcosa per caso, altre volte no, e questo dipende semplicemente da un fattore, cioè dall’intensità con cui una vita viene vissuta. Non importa quanti giorni di questa siano trascorsi, quante ore consumate, ma è importante invece, anzi fondamentale, appropriarsi di ogni singolo secondo di essa, affinché la vita sia vissuta come un’opera d’arte.
Una persona può vivere cento anni non essendo veramente felice, in un’esistenza futile, mentre un’altra vivere la metà e aver di più.
Forse il segreto è non fermarsi e chiedersi il perché delle cose, ma vivere, godendo ogni momento di una giostra che, indipendentemente dalla volontà o dalla ragione, si ferma quando desidera. Pertanto non bisogna pensare al buio in fondo al tunnel o alla mancanza di stelle in esso, ma alle tante luci incontrate sulla strada, ai tanti momenti piacevoli, felici, vissuti intensamente.
Napoleone Bonaparte disse «Meglio sarebbe non aver vissuto che non lasciare tracce della propria esistenza», e certamente quest’uomo un’impronta la lasciò, ma, anche senza compiere gesta incredibili, importante è trovare il coraggio di scovare sempre nella piazza, anche quando ci si sente soli, ignorati, distanti, quel puntino colorato in un quadro in bianco e nero, che renda liberi, quel qualcosa che, dicendola alla Hemingway «se fa dimenticare la morte, allora rende davvero felice».
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