Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

Il Muro

La Città è circondata da un alto Muro di pietra grigia, ed entro i suoi confini si vive, si coltiva, si lavorano le materie prime; ci dicono che siamo gli ultimi reduci di una pandemia, che qualunque mondo ci fosse stato al di fuori prima, adesso non c’è più – è diventato pericoloso, e quell’alto recinto è la nostra protezione, l’unica cosa che tiene a distanza gli orrori dell’esterno.
Io, personalmente, ho sempre creduto a questo dogma della nostra società: in fondo, che cosa avrebbero potuto guadagnare dal mentirci? No, mi sentivo rassicurata dai soldati, vestiti rigorosamente uguali, con l’uniforme, che pattugliavano i vari livelli del Muro a passi misurati, sempre a ritmo. Avevo trovato la mia nicchia nella comoda routine di ogni giorno, nel fatto che una persona si poteva confondere facilmente nella folla, diventare una parte di un qualcosa più grande, un’altra sagoma biancastra – a quanto pare, prima c’erano vestiti coloratissimi, ma non più. Ci rimane la candeggina.
Ecco, insomma, sarei stata contenta a vivere la mia vita come le generazioni precedenti avevano fatto: al sicuro dietro al Muro, cambiando ogni anno lavoro, in modo da contribuire in modo equo a tutti i bisogni della Città. Avevo però un fratellino, poco più che quattordicenne, nato quando io stavo finendo l’asilo nido; lui si era messo in testa che voleva vedere il mondo fuori. Lo diceva con la spericolatezza di chi ancora non pensa al futuro, che si crede immortale: quando le guardie lo sentivano parlare per strada, si mettevano a ridere e gli urlavano che gliel’avrebbero anche fatto fare, ma poi la sua morte sarebbe rimasta sulle loro coscienze.
Lui non ci badava; aveva persino trovato altre persone, pazze come lui, che si imbrattavano i vestiti di erba pur di non conformarsi alla normalità. Li sentivo parlare, quando si radunavano nella sua stanza, sussurrare favole di un mondo da scoprire, di un mondo bellissimo. Quando invece era da solo con me, preferiva dirmi ad alta voce quanto ero asina, quanto erano spessi i miei paraocchi. Io non ci badavo.
Ogni tanto, nella Città si organizzavano feste; una volta all’anno, in primavera, quando ancora non faceva troppo caldo, la sera c’erano i fuochi d’artificio, e si potevano comprare dolci fritti oppure partecipare ai giochi delle bancarelle. Quell’anno, era il turno dei nostri genitori gestirne una: io e mio fratello, quindi, ci trovammo da soli, per la seconda volta in tutta la vita, al festival.
Avevo notato già da parecchi giorni una certa frenesia nei suoi comportamenti, un bruciore negli occhi, affossati nelle orbite. In una settimana, mi sembrò di vederlo dimagrire almeno una decina di chili – aveva gli zigomi sporgenti, talmente affilati da darmi l’impressione che avrebbe potuto tagliarci il formaggio, e mi sembrava di vedere sempre delle ombre sulle sue guance.
Quella sera, quindi, ero in guardia: gli presi amichevolmente il braccio, sorridendogli innocentemente – quando mai era cresciuto così tanto? – e facendo finta di non vedere l’espressione annoiata che si stampò in faccia. Me lo portai dietro da bancarella a bancarella, a salutare le amiche, mamma e papà; per qualche miracolo, non lo persi di vista. Più io mi rilassavo, anticipando la fine della serata, e più lui diventava nervoso.
«E staccati!» mi disse per l’ennesima volta, cercando di togliersi il braccio dal mio.
«Ho promesso che mi sarei presa cura di te, quindi stai zitto e cammina», sospirai a mia volta, per l’ennesima-e-una volta, rinsaldando la stretta su di lui. Mi fulminò con lo sguardo, ma non osò tentare di staccarsi con la forza; tra noi due non c’era mai stata violenza, nemmeno da bambini, e non penso che lui volesse rompere in modo così definitivo l’armonia che si era formata, nonostante le differenze.
Dopo quella che sembrò un’eternità, il rimbombo di una campana segnò l’imminente inizio dei fuochi d’artificio. Ci spostammo più indietro, verso i margini della gigantesca piazza, in modo da poter salire sulle scale d’emergenza degli edifici per vedere meglio.
Gli spettacoli di quel genere mi avevano sempre affascinata – pur spaventandomi anche, un po’. Mi trovai quindi senza fiato, con le mani alla bocca per nascondere lo stupore e per soffocare i sospiri di meraviglia; mi girai verso Ermes, dopo uno scoppio particolarmente elaborato, per condividere le mie impressioni – ma dove prima c’era mio fratello, adesso c’era solo l’aria.
Per qualche secondo non capii quello che era successo, e mi guardai intorno, cercando di capire dove si fosse nascosto; quando finalmente compresi che era scappato, sentii il vuoto nello stomaco, come se qualcuno mi avesse fatto sparire per magia le interiora. Mi appoggiai alla balaustra, sentendola quasi calda, in confronto al gelo delle mie dita, e cercai di respirare; appena riacquistai il controllo dei miei polmoni, mi scaraventai giù per la scalinata, sentendo il metallo tremare sotto il mio peso.
Non avevo quasi mai corso – in Città si manteneva un passo regolare, che minimizzava i rischi di incidenti. Quella sera, corsi come se avessi avuto il Diavolo alle calcagna.
Avrei potuto riconoscere Ermes in mezzo a mille altri, identici a lui – con grandissima parte della popolazione che si era radunata nel centro della città, straboccando dalla piazza nelle vie e nei fori adiacenti – però mi risultava impossibile vedere altro che le spalle della gente. Ignorai gli sguardi sorpresi – e offesi – delle persone che spingevo via dal mio cammino, non mi fermai neanche per ascoltare le scuse di chi mi calpestava i piedi e finalmente dopo quella che sembrò una vita, la folla diventò meno spessa e riuscii a scorgere la sagoma di mio fratello. Era lì, si stava imbucando tra due stradine.
Il freddo che si era accoccolato nel mio intero busto sembrò allentare minimamente, e con nuove forze, ricominciai a correre; mi bruciava la gola, mi girava la testa, mi facevano male le gambe e i fianchi, ma nonostante ciò, non mi fermai. Avevo un pessimo presentimento, e niente e nessuno avrebbe potuto distogliermi dal mio obiettivo.
Mi infilai tra un cassonetto e l’altro e mi guardai titubante intorno per un attimo, aspettando che mi si abituassero gli occhi al buio improvviso che regnava indisturbato tra i muri del viale; mi coprii il naso e la bocca con la manica, cercando di respirare il meno possibile l’odore acre e putrido dell’immondizia che stava andando male, di ignorare lo sgocciolio di qualche sostanza ignota sul cemento corroso.
Feci un passo, poi un altro, poi un altro ancora: in poco tempo, stavo correndo di nuovo, inspirando a mio malgrado il miasma che sembrava diventare più forte con ogni secondo che passava. Stavo iniziando a perdere speranza quando, oltre al ritmico battito dei miei piedi, ne sentii altri – altri che avrei potuto riconoscere tra mille.
Cercai di accelerare e in poco tempo avvistai un’altra persona davanti a me.
«Ermes!»
Si girò, e per una frazione di secondo potei intravedere il suo volto alla luce di un lampione – sorpreso, sì, ma anche un po’ angoscioso – prima che egli si sottraesse al chiarore. Non ci badai. Lo raggiunsi con il cuore che mi batteva nelle tempie, bum-bum bum-bum, talmente veloce da farmi venire un gusto amaro nel fondo della gola, e gli presi la mano.
«Dove pensi di andare?!» gli chiesi con la voce rauca, deglutendo attraverso mille aghi che mi si erano infilzati nella trachea.
Non disse niente per quello che a me sembrò tantissimo tempo, fissandomi come se fossi uno spettro apparso per beffa.
«Fidati di me, vieni».
Mi mise le mani sulle spalle e mi guardò negli occhi, sostenendo il mio sguardo come non era mai stato in grado di fare. Fu solo allora che notai che l’ombra sulla sua guancia era l’inizio della barba. Rimanemmo immobili per qualche secondo e poi, con una mano che mi si stringeva intorno allo stomaco, feci cenno di sì con la testa. Lui mi guardò stupito per qualche secondo, e poi mi imitò, muovendo il capo come se avesse paura di spezzare un incantesimo.
Mi prese il polso e iniziò a camminare davanti, trascinandomi; non opposi resistenza, anzi, aumentai il passo, in modo da procedere di fianco a lui, vedere le cose allo stesso tempo. Non avanzammo per molto: in fondo al viale ci aspettava una macchina, e al volante c’era uno dei miei compagni di scuola, più grande di un anno; notai subito che era rubata. Le automobili erano vietati se non per i componenti del Consiglio che gestiva il governo della Città.
«E lei che ci fa qua?».
Mi girai a destra, verso la voce che aveva parlato, e trovai di fronte uno degli amici di Ermes.
«Vengo anch’io con voi» risposi prima che lui potesse farlo per me, staccandomi da lui e andando a sedermi davanti, mettendo la cintura.
Affrontai lo sguardo dell’autista, che mi guardava incredulo; dopo qualche attimo, fece partire il motore.
Altri tre si sedettero dietro, con mio fratello in mezzo, e prima che io avessi il tempo di riconsiderare, di rendermi conto che stavo rompendo le norme, che avrei benissimo potuto prendere una manciata d’erba e sporcarmi i vestiti, la macchina iniziò a muoversi, avvolta dal silenzio che la tensione imponeva.
Per la prima ora, o giù di lì, rimasi sul margine del sedile, stringendo convulsamente la cintura. Dopo due ore, iniziò a farmi male la schiena, quindi mi appoggiai allo schienale. Dopo tre ore, penso di essermi addormentata; mi risvegliai quando il sole iniziava a farci timidamente l’occhiolino, da sinistra, con i muscoli dolorosi e un sapore acido in bocca.
Avevamo cambiato autista; adesso Ermes si trovava al volante, ma non ebbi la forza di preoccuparmi o di chiedergli come faceva a sapere come guidare. Prima di poterla riacquistare, ci fermammo; alzai lo sguardo. Davanti si ergeva il Muro, più lugubre nel semi--buio prima dell’alba di quanto non apparisse a mattino inoltrato, quando lo vedevo sempre.
Scesero tutti prima che io mi rendessi conto di dover fare la stessa cosa. Con dita tremanti, staccai la cintura, aprii la portiera e precipitai giù; per miracolo rimasi in piedi, ma non senza attirare gli sguardi divertiti e annoiati insieme degli altri quattro.
Iniziarono a camminare, in silenzio, come se avessero provato il tutto mille volte prima di quella mattina, verso una piccola griglia alla base della costruzione. Notai solo allora che eravamo parcheggiati sotto una sorta di balcone, il quale avrebbe nascosto la macchina dalla vista delle guardie – che, giudicando dall’aspetto deteriorato del posto, non passavano poi di lì tanto spesso.
Avanzai con passo rapido e presi il braccio di Ermes, tirandolo per farlo girare verso di me.
«Cosa stai pensando di fare?!» sibilai tra i denti, guardandolo negli occhi.
«Hai detto di voler venire anche tu, adesso vai fino in fondo» mi sussurrò, contraendo i muscoli della mascella in un tic nervoso che era tipico anche di nostro padre.
Feci un passo indietro, pronta a dirgli che volevo tornare a casa, quando qualcosa mi fermò; la sua determinazione, forse, oppure la riluttanza di lasciarlo da solo con persone di cui non mi fidavo affatto.
Gli lasciai il braccio, gli lanciai uno sguardo tagliente, e poi lo superai, dirigendomi verso gli altri, che stavano svitando con cautela la griglia.
«Vogliamo utilizzare il condotto di scarico dell’acqua per passare dall’altra parte del Muro» mi spiegò il più grande, senza neanche degnarsi di guardarmi.
Studiai attentamente le loro facce; non sapevo i loro nomi, ma il mio compagno di scuola era di sicuro il leader, colui che aveva raccolto gli adolescenti non ancora formati alla sua crociata. Era, tra l’altro, più grande di quattro anni rispetto a tutti loro. Feci una smorfia, ma non commentai; avrei avuto modo di accusarlo di usare l’ammirazione tipica dei più piccoli per i propri scopi dopo, quando mio fratello si sarebbe convinto che fuori non c’era altro che desolazione.
Non ci volle molto per smontare la griglia e gli altri tre scivolarono subito dentro. L’acqua stagnante emanava un forte fetore, ma non ci feci caso. Piuttosto, mi accucciai e mi lasciai cadere dentro, seguendo alla cieca i rumori degli altri e ascoltando allo stesso tempo mio fratello che mi seguiva.
Non ci volle poco per arrivare dall’altra parte dello scarico; quando finalmente svitarono anche l’altra griglia, trassi un sospiro di sollievo; la luce fioca che si infiltrava bastava appena per vedere un metro davanti al proprio naso, e non vedevo l’ora di tornare in superficie.
Mi lasciai aiutare a salire, sentendo i vestiti che pesavano tonnellate. Per qualche secondo non vidi nulla, a causa del bagliore del Sole appena sorto; subito dopo che mi si abituarono gli occhi, però, mi sembrò di nuotare in un mare verde. La vegetazione rigogliosa rilasciava un profumo che non avevo mai sentito, neanche quando avevo visitato i campi dove si coltiva il cibo. Rimasi a bocca aperta, sentendomi sopraffatta dal ribaltamento di tutti i principi della mia vita.
Ermes mi si affiancò, guardando il tutto con la soddisfazione di qualcuno che sapeva già cosa aspettarsi; che sapeva già che il Muro serviva per tenere noi dentro, e non per tenere qualcosa fuori.
«Come hai fatto a saperlo?» sentii qualcuno chiedere, e solo dopo qualche momento mi resi conto che la voce fioca, tremolante, mi apparteneva.
«Leggo», rispose serenamente, con un vago sorriso sulle labbra.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010