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17ª edizione - (2014)

Alla scoperta dell’arte

Mi improvvisai critica d’arte, nel tentativo di fuggire da quella malevola mediocrità che i più, ergendosi a giudici del prossimo, credevano mi rappresentasse.
Non mi ritenevano mediocre per una mia presunta povertà di ideali: avevo le mie idee e le avrei sempre difese. Difettavo invece, secondo loro, di talento e carisma.
I buoni voti a scuola, la mia voglia di fare, il mio spirito di sacrificio non erano mai sufficienti: mi mancava sempre quel qualcosa in più che però non arrivava mai. Se poi mi avessero chiesto quale figura retorica mi rappresentasse meglio, avrei risposto «Sicuramente un ossimoro».
La mia personalità infatti poteva essere ben riassunta dall’accostamento di un aggettivo e di un sostantivo in antitesi tra loro: cupa luminosità. Ero brillante ma qualcosa mi impediva di esserlo pienamente; ero intelligente ma qualcuno lo era sempre più di me; avevo spirito di sacrificio e mi impegnavo sempre ma questo non era mai abbastanza.
Fu così che decisi di vincere quella mediocrità. Quel pomeriggio avrei provato emozioni nuove dinanzi alle opere d’arte di un grande della pittura, il maestro dell’astrattismo: Kandinskij.
Avrei poi messo per iscritto quelle emozioni, perpetuando nel tempo il ricordo di un’esperienza di vita. A chi non aveva creduto in me sarebbe giunta quella lieta novella. Sarei sbocciata anche io, un fiore bello come gli altri ma dimenticato nel più sperduto dei prati.
Ancora sola, nei mie abiti stravaganti e nel mio caschetto anni ’60, quel pomeriggio avrei parlato a dei dipinti e non con la voce ma con gli occhi, lo sguardo, le emozioni.
Inutile poi dire quanto libera mi sentii quel giorno. Un sorriso tracciava sul mio volto una linea imperfetta e io mi scoprii bella nella mia manchevolezza. Fu la prima volta che mi accettai per quella che ero, pronta a uscire trasformata da quel viaggio che iniziò nel migliore dei modi. Subito mi trovai infatti in una splendida sala, riproduzione di un lavoro realizzato da Kandinskij con l’ausilio dei suoi allievi.
Colori forti, intensi, vivi mi colpirono. Quella sala mi trasportò in un’altra dimensione e io lasciai che ciò accadesse perché mai prima d’ora ero riuscita ad aprire la porta dell’immaginazione. Fu la prima volta che mi sentii a mio agio tra le persone.
Nessuno puntava occhi indiscreti su di me perché tutti eravamo anticonformisti e felici di esserlo. Nel mio percorso di critica d’arte, io, ancora apprendista, potei essere accompagnata e cullata dalla voce, profonda e distinta, di una famosa critica d’arte, Ada Masoero.
Pochi passi, le parole di Ada, e mi ritrovai nella seconda sala. Qui potei vedere un video in cui Nina, ultima moglie dell’artista, raccontava l’esperienza di vita e di pittore del marito. «Kandinskij diceva che non c’erano regole in pittura. Tutto ciò che era sincero andava bene».
Io nulla amavo più della sincerità e mai avevo nascosto quello che volevo essere e che ero, dimostrandolo nello stile e ancor di più nel carattere. Non potei pertanto non fare mie quelle parole. Non amavo le maschere ma i volti sinceri delle persone e tanto quanto Kandinskij, apprezzavo la sincerità in pittura.
Finalmente avevo trovato qualcuno a me affine e poco importava che fosse un defunto pittore. L’avrei conosciuto attraverso i suoi dipinti dinanzi ai quali poi rimasi effettivamente meravigliata, come pensavo sarebbe accaduto.
Ora amavo la passione esaltata in quel dipinto, ora la particolarità di quell’olio su tela, ora la novità di quel paesaggio. Se avessi potuto, avrei danzato tra quei colori, rapita dalla fulgida distesa di colori che mi sembravano sentite rivelazioni di un’anima pura e sincera, quale fu quella di Kandinskij. Il suono soave di uno strumento a corda sembrava accompagnarmi in quel percorso. Le emozioni non poterono trovare ostacoli.
Un dipinto però più degli altri seppe pormi nell’atteggiamento contemplativo di chi finalmente, scoperta la bellezza, ne comprende il valore: Giallo, rosso, blu.
Quello infatti fu il dipinto più di impatto che potei ammirare, in quell’esplosione di colori accesi, perfettamente accostati. Mi piacque quell’espressivo gioco di tonalità diverse che ricordava lo splendore mattutino di un prato di città, paradiso terrestre tra il grigiore dei palazzi e delle strade.
Meravigliata e in un atteggiamento estatico, fu così che provai serenità, per quell’ordinato aggrovigliarsi di colori, linee e immagini. A me che amavo l’ossimoro, espressione di inquietudini interiori e loro specchio grafico, quel quadro non poté che suscitare felicità.
Instaurai con quei colori e con Kandinskij stesso quella complicità di amorosi sensi che tanto amava citare la mia professoressa di italiano.
Tutti possiamo dipingere un paesaggio così come ci appare. Alcuni tuttavia riescono meglio nel loro intento e raffigurano su un piano un paesaggio che diventa trasposizione grafica dotata paradossalmente di spessore, vivacità, forza emotiva.
Infine c’è anche chi, come Kandinskij, sperimenta, quindi osa e di conseguenza cattura. Questo climax di emozioni non può che stupire all’inizio, ammaliando a poco a poco lo spettatore che ne scopre la genialità.
Il titolo del dipinto a olio su tela è inoltre sintesi efficace del tema rappresentato: il colore.
Quest’ultimo per Kandinskij è fondamentale, inscindibile dall’arte stessa, tanto dall’essere investito di un valore allegorico, nonché di una sorta di dovere didascalico. Ne consegue che il giallo è la tromba, il rosso è la tuba e il blu è il violoncello.
Chi mai aveva associato i colori a un suono ben preciso? Probabilmente tutti ne avevamo avuta inconsapevolmente l’idea, perché scoprire a quale strumento l’artista associa ciascun colore ci sembra evidente, in fin dei conti non così geniale.
Ma Kandinskij osa ancora di più e ritrae nel dipinto un uomo e allo stesso tempo il muso di un gatto, riconoscibile capovolgendo il quadro. L’artista sfida così l’uomo, lo rende partecipe di un’arte diversa, nuova, fuori dalla regola. Non è pertanto da escludere che l’uomo raffigurato sia l’autore stesso che, come ogni grande, non fu subito apprezzato ma sminuito per l’apparente semplicità della sua tecnica pittorica.
La disapprovazione verso l’arte astratta di Kandinskij, inspiegabilmente sostenuta da diversi critici d’arte, raggiunse in passato l’apice con il regime nazionalsocialista di Hitler.
Il dittatore tedesco tra gli esponenti dell’arte degenerata annoverò anche Wassily Kandinskij.
Nell’arte del maestro dell’astrattismo Hitler non seppe riconoscere la razza ariana. Per questo come tanti altri Kandinskij fu vittima di un regime che non tollerò neppure la diversità artistica.
Conformità e consuetudinarietà , qualità queste che invece venivano apprezzate dal carnefice tedesco, non potevano appartenere a un’arte estremamente simbolica, un’arte aggrovigliata all’apparenza, ma, in seguito a una più attenta analisi formale, misurata, ponderata nel colore, nei sentimenti rappresentati.
Quel dipinto era più che astratto.
Era unico, grandioso, vi riconoscevo la mia personalità, la mia giovane voglia di vivere, il colore della grande bellezza che l’uomo ha saputo creare nei secoli.
Fare arte significa amare l’altro, donare se stesso al prossimo e Kandinskij lo sapeva fare nel migliore dei modi.
Quella sera tornai a casa diversa. Presi un quaderno e sulla copertina scrissi: Mostre.
Quella di Kandinskij sarebbe stata la prima di una lunga serie di avventure. Non ero mediocre come gli altri pensavano e poco mi importava del loro giudizio.
Una vita piena di arte aspettava solo me.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010