Riccardo e Giovanna, ricordo di una vita spezzata
Camminava piano, troppo piano, appoggiandosi al bastone di mogano, un passo alla volta, veloce quanto gli era concesso.
La strada era buia, deserta e silenziosa, come ormai lo era da tempo. Il bastone ogni tanto si impigliava nel pavé di porfido, mentre i mocassini imbibiti affondavano di più a ogni pozzanghera.
L’anziano signore quei posti li conosceva bene, conosceva quella stazione in fondo alla strada, vecchia cornice di baci rubati, alla mattina presto, quando era ora di partire, e ci si sarebbe detti «ti amo» mille volte pur di non lasciarsi andare, quella stazione contorno di rincorse dietro i convogli e di lacrime portate via dal vento.
La stessa stazione che aveva visto piangere milioni di anime trasportate ad Auschwitz, future vittime della loro unica colpa: essere nati. La stessa stazione che, cinquant’anni prima, condannava il signor Riccardo all’irrimediabile perdita del suo primo, unico, grande amore.
Aveva appena compiuto diciotto anni Riccardo, aveva gli occhi scuri, le mani grandi e tanta voglia di andare via, Giovanna sfiorava i diciassette anni e il metro e sessantadue, aveva i piedi piccoli per le sue scarpe e le guance rosse quando, la stessa mattina dello stesso giorno, i soldati scelti delle SS sopraggiunsero nelle modeste abitazioni delle loro rispettive famiglie.
Quando però, poche ore dopo, entrambi pervennero alla stazione ferroviaria di Milano, precisamente al binario 21, di anni ne avevano almeno il doppio. Costretti a crescere troppo velocemente e ad abbandonare la spensieratezza delle gioventù, si strinsero il più vicino possibile, prima dello smistamento, consapevoli del loro approssimativamente sicuro e tragico destino.
Non ci furono lacrime nemmeno in quel giorno, nemmeno in quel vagone, e Riccardo si tratteneva, perché mai aveva visto piangere Giovanna, e mai lei aveva pianto, e proprio lei gli aveva insegnato a non piangere. Solo strette, silenzi, respiri sommessi e grida represse. Solo sguardi, non una parola, tutto quello che dovevano dirsi già lo sapevano.
E dopo del tempo che pareva troppo poco, metà dei passeggeri partiti arrivavano ad Auschwitz. Iniziò lo smistamento, e fu la penultima volta che Riccardo vide Giovanna. Così gli veniva strappato un angolo di cuore.
L’ultima volta che Riccardo vide Giovanna fu sette mesi dopo, e se non fosse stato per i suoi occhi verdi nemmeno l’avrebbe riconosciuta. Magra, scavata, provata, morta, velata, camminava così leggera da sembrare una farfalla verso la fonte migliore di sollievo che Riccardo potesse augurarle di trovare nell’inferno in cui erano capitati: la morte.
Anche quella volta Giovanna non aveva segni di pianto sul suo volto, andava avanti per inerzia, le braccia lunghe contro i fianchi nodosi che prima Riccardo tanto aveva amato. Riccardo avrebbe voluto urlare, e quella volta sì, Riccardo avrebbe voluto piangere gridando quel nome così dolce al suo udito che mai avrebbe meritato di essere strillato. Sarebbe morto? Non era questa la domanda ormai: gli sarebbe importato?
«Giovanna!»
E proprio quello fu il momento in cui loro sguardi si incrociarono per un’ultima, straziante, insopportabile volta, e Riccardo fu certo di vedere un’ombra di riso incurvata tra le labbra porporine dell’amata. Così andava via il suo ultimo pezzo di cuore.
Mai la rivide, e quella notte pianse, e pianse tutte le sue notti, e si scusò con l’anima di Giovanna per aver pianto, e poi pianse ancora, di nascosto, e pensò di lasciarsi andare, e pensò all’ingiustizia della vita, e pensò a Giovanna di cui pochi conoscevano la storia e di cui pochi si sarebbero ricordati, e pensò a quanto può essere giovane il volto della morte, pensò che tutto ciò che aveva da perdere era appena perso, e ricordò, e si fece male, e poi pianse ancora, e infine promise che un sorriso voleva regalarglielo anche se a dividerli adesso c’era il cielo, quello stesso velo celeste che era stato il loro unico limite fino a pochi mesi prima.
Fu in quel momento che Riccardo decise che sarebbe sopravvissuto. Pregò tutte le notti, e tutte le notti promise che se fosse uscito vivo si sarebbe vestito ogni giorno del colore del cielo, in ricordo di quell’amore taciuto troppo presto. E si sentì egoista, perché avrebbe voluto morire lui al posto suo, e ogni cosa avrebbe dato per poter dimenticare quell’ultimo sguardo e ricordarla con le sue guance rosse.
E ogni giorno Riccardo si chiedeva come si fossero sentiti quegli uomini a veder morire una creatura così meravigliosa, e ogni giorno si chiese come potessero degli esseri viventi privare una donna della sua dignità e poi la sera tornare a casa e guardare le proprie mogli negli occhi, come potessero ascoltare gli ultimi battiti dei cuori di quei bambini e poi abbracciare i propri figli il giorno di Natale, circondati di regali e biscotti allo zenzero, e come potessero guardarsi allo specchio, senza volerlo rompere in mille pezzi.
Un milione e mezzo di anime morirono in quegli anni intorno a lui, un milione e mezzo di innocenti, di cui nessuno si sarebbe ricordato, un milione e mezzo di vite spezzate, un milione e mezzo di Giovanne.
E Riccardo si chiese dove fosse Dio mentre le donne imploravano per i loro mariti, e si chiese se fosse troppo occupato, mentre i bambini strepitavano soffocati dai getti di gas.
Riccardo fu liberato dal campo di concentramento di Auschwitz il 27 gennaio 1945, all’età di diciannove anni, e fu felice, perché a quell’età non si vuole morire, non si ha proprio voglia di diventare cenere. Mai rivide i suoi genitori o quelli di Giovanna. Riccardo si sposò all’età di trentacinque anni con Maria, e la vide portare alla luce i suoi tre figli che furono poi l’unica consolazione di quella vita marcata di dolore, e ogni giorno Riccardo si vestì di azzurro, e ogni giorno Riccardo ricordò la sua Giovanna e non pianse mai più.
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