Tramonto della luna
Napoli, 14 Giugno 1837
Sento di nuovo quel sapore tragico sulla lingua.
M’impregna le vene, m’impregna le ossa, mi tiene tutto entro la sua morsa mortale e dolce, come fosse l’ultimo bacio di un amore sofferto. Come sei bella, ancora, tu. E mentre adagio queste mani stanche sul mio stanco foglio non penso ad altro che a quel vulcano, quel monte che fuma e che non straborda mai; le sue scintillanti curve si riflettono nel mare del golfo e le luci dei lampioni e delle case e del cielo paiono danzare nel turbine delle onde calme e lugubri. Tutto tace. Tutto è fermo, immobile, selvaggio. Tutto è spento, morto, abissale. «Eppur uno spron quasi mi punge», e sono di nuovo in questo letto, infermo, inerme, esangue quasi, col cuore trafitto da quel vago senso di infinito che mi pervade e che mi ha condannato a morte già prima che nascessi.
Sono stanco. Ho le palpebre molli e violacee, le ciglia spente, il cuore inaridito. Mi sento morto, morto, morto tutto dentro e fuori di me. E se penso a tutta la mia vita essa non è stata altro che una lunga e sofferta agonia di un’anima innocente che ha trovato mesto rifugio nel midollo mio morente.
Perì.
Perì quel sentimento che mi nutrì come una balia nutre al seno un neonato, perì quella bellezza degli anni fiorentini, perì quel desiderio sofferto di lei, perì la dolcezza degli accorati anni miei.
Eppure – quanto sei bella.
Le mie labbra non riescono a pronunciare il tuo nome, giovinetta immortale, amica fidata, carissima amata. Alzo il braccio sinistro, quello che non uso per scrivere, e affacciato alla finestra mi pare di sfiorare le tue guance di perla, lisce come liscia è la pelle di una fanciulla. Le tue fiammeggianti chiome argentee emanano sapore di speranza, quella speranza che porto sempre nel cuore; e come la spada consuma il fodero, essa ha lacerato la mia anima. Io, così brutto, malato e livido come una foglia umida e putrefatta mi beo per l’ultima, innocente volta del tuo sorriso maestoso che s’allarga fra le valli dei fiumi e dei laghi e che inonda la terra con il suo vivido canto alla bellezza di una mesta candela che si spegne. Eppur, forse, tu conosci il tutto. Conosci la sofferenza della vita, della fine cui è destinata ogni cosa, del susseguirsi delle stagioni, dell’alba e del tramonto e di questa terra che ruota senza sosta, senza mai fermarsi. E forse è inutile che io non smetta di rivolgermi a te, che tutto sai e che nulla riveli. Sono solo parole le mie, che verranno spazzate dalla fiumana del progresso, esattamente come accadrà col mio corpo, quando sarà restituito alla terra.
Guardo di nuovo le mie mani. Una, la destra, sporca d’inchiostro, è callosa, soprattutto sul medio, dito più lungo di tutti gli altri. L’altra è più minuta, più sottile, quasi fosse adatta a far nulla. Il ferro del mio mestiere si allenta, m’abbandona. Solo la mia coscienza persiste, genitrice adottiva della mia sofferenza senza fine.
Rivolgo il viso a te; ti indico con la punta del naso mentre allungo il collo verso il tuo volto. Vorrei baciarti, sentire le tue labbra umide sulle mie, secche, aride, esangui, cosicché possa finalmente provare quella felicità che tanto temo e tanto amo, e morire sereno, col sorriso sulla fronte e sulle ciglia piangenti di ricordi. Forse, anzi, certamente mi puoi vedere.
Oggi indossi l’abito più bello che abbia mai visto sulla tua pelle; sei nuda, candida, appena contornata da veli di nuvole spumose di incensi sacri e cerulei, i quali rivelano ancor più chiaramente le tue curve. Come sei bella, stasera.
Sei bella esattamente come il primo giorno in cui t’ho osservata. Avevo quindici anni, allora. Ero giovane. Il cuore mi batteva dentro come fosse una cicala, e come una cicala cantava la gioia della spensieratezza dei primi anni di vita, pieni di speranza, di dolori piacevoli al ricordo. Ero piccolo di statura; e quando mi confrontavo con gli alberi delle colline e del giardino mi pareva d’essere una creatura silvestre, esattamente come quelle che vivono nelle caverne o dietro alle cascate, fra le rocce vergini delle montagne intatte. Amavo così tanto la luce del sole da sentirmi indegno di sentirla scorrere sulla mia pelle chiara e glabra; i miei occhi non avrebbero mai goduto della lucentezza della nostra stella, in quanto troppo, troppo chiari e deboli per ricevere tanta meravigliosa gioia. Mi limitavo a sognare con la mente nella mia stanza, tutta piena di libri, opera di mio padre. Era bello, mio padre. Aveva un volto severo e dolce, quasi fosse un angelo guerriero; e studiavamo insieme il latino, il Tasso, le nuove scienze. In braccio a lui io mi sentivo immortale; poggiavo con le gambe sulle sue, robuste e forti, e mi pareva d’essere un nano sulle spalle di un gigante. Non so dire quante ore passai in quella stanza che mi pareva tanto angelica quanto infernale. Gli anni si fecero sentire sulle mie spalle e soprattutto sulla mia schiena, carica di un gravissimo fascio che mi pesava su tutto il corpo. Divenni quasi deforme; e ci mancò poco che mi segregassi in casa e che non uscissi più. Le gioie nei sorrisi di mia sorella si spensero quando ella, pur contro il suo volere, se ne andò via di casa, portando dietro sé i ricordi della nostra infanzia innocente e felice, passata sotto gli alberi del giardino e sulle colline appena fuori del paese. Piansi quando vidi per l’ultima volta la sua carrozza allontanarsi per il viottolo della casa, mentre un fazzolettino roseo ricamato sventolava senza vita dal finestrino, quasi fosse una bandiera bianca di resa. Mi restava mio fratello; ma anch’egli si allontanò poco dopo, senza dare alcuna spiegazione. Ricordo il giorno in cui io e la serva trovammo una lettera scritta di suo pugno sulla credenza della sala da pranzo, accanto al vaso di fiori di cui egli soleva prendersi cura. Preferii non leggere; mi bastò leggere gli occhi di quella donna, dal viso tanto grazioso quanto raccapricciante se inondato di pianto. Non seppi mai più nulla su di lui. Tutto ciò che mi rimane di lui è una pallina piccola, di cuoio, grossa quanto il pugno di un bimbo. Dormii molte notti con quella pallina sotto al mio cuscino, nonostante facessi molta fatica a causa dello spessore che mi rendeva difficoltoso il sonno.
Ero rimasto solo. Avevo tutto, e non avevo niente. Tutta la mia ricchezza consisteva in un gran bel cervello, forse fin troppo attivo e funzionante, che mai mi lasciava in pace, neppure di notte, in quanto non era raro che mi svegliassi per i troppi pensieri che affollavano la mia testa. Scrivevo, scrivevo senza sosta; ero convinto che traducendo tutte le mie angosce e le mie ansie sulla carta avrei potuto godere di una manciata di serenità e calma. Giusto una manciata, non chiedevo di più. Quante notti insonni passate alla scrivania della mia camera, al lume di candela, con il freddo nelle ossa e le ciabatte rosse un poco gualcite sulle punte dei piedi! Mi sedevo con le gambe accavallate e la schiena inclinata sul foglio, quasi volessi carezzarlo e consolarlo per le ferite nere di sangue che avrebbe ricevuto dalla lama secca e tagliente del mio pennino. Lasciavo andare libera la mano sui fogli intrisi di piaghe, dolenti, come dolente era il mio stato, la mia angoscia, il mio midollo impregnato di desiderio infinito. M’accovacciavo sul tavolino, facendo attenzione a non far sbavare l’inchiostro non ancora asciutto. Mi facevo piccolo piccolo, insignificante, come se fossi una formichina in un oceano di stelle. Non volevo essere visto da nessuno: avevo vergogna di me stesso. Spesso abbassavo le palpebre, per sparire nella sicurezza del buio proprio come fanno gli struzzi o altri strani animali che avevo visto sull’enciclopedia della biblioteca di casa.
Un soffio di vento, uno spiffero spense, una sera, il lume che avevo alla mia sinistra. Un sottile nastro azzurrognolo di fumo m’entrò nelle narici, mi sibilò fra i capelli, pervase la stanza col suo odore acre che mi ricordava la tabacchiera di mio padre. Alzai le palpebre, piano, come se fossero delle farfalle che per la prima volta si lasciano carezzare dal sole. Nella penombra osservai le mie mani; bianche, lattiginose, quasi statuarie, con quell’elegante pennino che reggevo fra il pollice e il medio che mi dava un tocco quasi senatorio. Le ombre della notte gettavano sulla mia lunga camicia chiara un non so che tepor velato, quasi fosse neve sotto il cielo d’una città che dorme; era la prima volta che, guardando le singole parti che componevano la mia mobile figuretta acerba provavo un senso di compiacimento e soddisfazione. La luce che penetrava dalle tende della finestra spargeva nella stanza una sacralità effimera e seducente, inondando le pareti di quel godimento che bacia i madrigali del Tasso.
Non mi ero mai sentito degno di guardare un astro negli occhi: eppur lo feci. Alzai lo sguardo, mi scostai i capelli mossi dalle gote, tentando di sistemarli dietro l’orecchio. Oltre il vetro della finestra, contornato dalle vesti delle nuvole e dalla cinta dell’orizzonte ubriaco di stelle io amai un volto. Intatto, candido, giovinetto, immortale parve ai miei occhi non abituati a guardare la fonte pura della luce celeste. Una corona d’allori splendenti le contornava il volto sublime e argenteo, dagli occhi del color della spuma che amavo sfiorare in punta di piedi durante le gite al mare. E come il mare, i suoi capelli si diffondevano tutto d’intorno, baciando ogni angolo della trapunta di stelle fulgenti e auree. Aulenti erano i suoi occhi, fulgidi di passione e di innocente bellezza. Entro me stesso sentivo di averla conosciuta da sempre. Lei si svegliava, da quando era nato il mondo, nel momento in cui gli uomini ingenui andavano a riposarsi nei loro letti, abbracciati alle loro mogli, dimenticandosi del tedio provato durante la giornata. E veramente essi dormivano, mentre questa creatura sublime si affacciava all’oculo della cupola celeste, baciando i prati del paese con le sue candide dita d’argento. E nessuno si era mai accorto della sua ineguagliabile bellezza, perché nessuno aveva mai saputo bearsene. Parlava un linguaggio difficile, lei. Parlava il linguaggio della solitudine delle creature esiliate sulla terra, sole fra le moltitudini, nascoste fra le carni del loro stesso cuore. Parlava il linguaggio delle creature troppo brillanti per essere contemplate da occhio umano, troppo aulenti perché gli uomini potessero godere del loro inebriante profumo, troppo caste per essere toccate dalle labbra di alcuno.
Come eri bella, quella notte. La tua maggior bellezza consisteva nel tuo volto, nei tuoi occhi lagrimosi e languidi, nelle tue labbra sottili e desiderabili, nelle tue gote color cipria che avrei voluto sfiorare con le mie guance. Nel tuo volto lessi la supplica della mia anima, la preghiera del mondo. Stavo così, col nasino all’insù, che vicino al vetro causava una leggera condensa. «E nebuloso e tremulo dal pianto alle mie luci il tuo volto apparia». E tu, solinga peregrina, percorrevi con il tuo corteo celeste le vie dei cieli stellati e forse, ancora, non potevi o non volevi vedermi. Eppure ti parlai. Ti parlai col nostro linguaggio, quello fatto dalle lacrime e dai sorrisi che sorgono spontanei, come gli archi d’un arcobaleno dopo una furiosa tempesta. Ti domandai il perché della mia insonnia, delle mie sofferenze, della perenne angoscia che agitava mio padre, dei sorrisi fasulli e inetti della gente del villaggio, delle mie dita callose, di ogni mio amaro, amarissimo pianto e della mia stessa, arida vita.
Avrei voluto volare, quella notte.
Avrei voluto avere le ali sotto la mia schiena, sotto l’astuccio di quella gobba che tanto detestavo, e scappare dai miei sogni infranti, dalle paure della maturità, dalla vanità del tutto; avrei voluto danzare con le creature immortali del cielo, vedere la nostra piccola, povera terra dall’alto dell’abisso di stelle e divenire anch’io immortale. Ti avrei seguita ovunque, per l’intero universo, per l’intero cosmo sacrificando la mia giovinezza non ancora in gemme.
E pur quel desiderio ancora mi tormenta. E tu ancor mi guardi, da lontano, mentre pendi sul monte d’alloro e odoroso d’erbe selvagge. Pendi su quel monte come facevi quella notte, quella infinita notte in cui m’innamorai di ciò che potei vedere sulle tue labbra fulgenti. Ti parlo, ti parlo ancora, proprio come quella notte. E ancora vorrei poter avere le ali e fuggire da questo mio letto di morte che mi tiene ancorato alla vita umana, al limite di noi uomini, costretti, come vagabondi, a cercare un qualche rifugio che viene spazzato via in un istante da un soffio della natura imperatrice.
Non pretendo che tu mi risponda; forse non comprendi, forse chiudi gli occhi di fronte al mio volto.
Lascio questa terra desolata per raggiungerti, mia adorata creatura. Quando diverrò foglia silvestre e tu umana donna potremo certo essere felici e abbandonare questa solitudine che è compagna fedele della nostra esistenza. Dedico a te il mio ultimo sguardo; e morirei ancora mille volte pur di bearmi dei tuoi casti occhi divini.
Morior, tamen renascor.
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