Il miglio rosso
di Pavel Saveliev
Primo premio
Margherita aveva sognato un sito sconosciuto, desolato, mesto, sotto il cielo fosco della primavera precoce. Aveva sognato quel cielo grigiognolo, pezzato di nuvole che scorrevano e sotto uno stormo silenzioso di cornacchie. Un piccolo ponte rozzo, sotto di esso un un torbido fiumicello primaverile. Alberi malinconici, stenti, semispogli. Una tremula solitaria e più lontano, fra gli alberi, al di là di un orto, una casupola di tronchi, forse una cucina isolata, oppure un capanno da bagno o sa il diavolo che cosa. Tutto intorno un non so che di morto e di così triste, che veniva voglia d'impiccarsi a quella tremula vicino al ponticello. Che sito infernale per una persona viva!
Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita
Non c'era un cane di nessuno per strada, il vento leccava l'asfalto dei marciapiedi per lo più lerci di sterco. Il polline volava dappertutto, era luglio, ma era inverno allo stesso tempo, bianche lacrime di alberi inondavano i tetti delle case, imbrattavano le macchine di produzione sovietica, facevano l'amore col verde dell'erba. Il cielo era illuminato dall'abat jour del disco solare che eccitava l'orizzonte sfiorandogli un poco la pancia, erano le undici di sera, ma era estate, perdio.
Lena uscì dal bar Notte bianca, un alone di fumo l'avvolgeva, un aspetto più intrigante, forse, per un essere strafatto di lavoro comunitario. Dentro il locale, la rivoluzione, uomini, bestie s'ammassavano all'idea di birra, il sudore pizzicava le retine. L'odore di frittelle imburrate baciava giovani, vecchi, ingegneri dimessi. Nessuna chiacchiera, fiumi di alcool antistress, un Lenin appeso di qua, un ubriaco steso di là. Insomma, un normalissimo locale sovietico. La scritta rossa ammoniva i frequentatori a pensare più a papà Stalin che al romantico nome.
La donna parlava alla bottiglia di vodka che teneva in mano, era ubriaca di alcol metilico, puri fondi di bottiglia nelle vene. Le scarpe coi tacchi scalfiva i suoi piedi come la croce intaccava la carne di Cristo, sotto il busto snello ruotavano gambe mozzafiato, luna park ormai chiuso di vecchi amanti. Fissò l'etichetta della bottiglia, dove un Magellano ammonitore sembrava invitarla alla sobrietà. Si arrabbiò e fermò un passante.
“Compagno, perché c'è Magellano qui sopra?” urlò sbattendogli il vetro in faccia.
“Non so, compagna, forse è morto… o forse l'han fatto eroe” Sentenziò il vecchio toccandosi il cappello.
Lena scacciò lo sfortunato in malo modo, inebriata di misantropia. Era il suo cinquantesimo compleanno, un'età che gravava sui suoi capelli ormai grigi in più parti, come l'aria di una Leningrado che tossiva sempre di più. Erano biondi, una volta, quel biondo oro che si sbatteva in faccia ai maschietti dell'università, invitandoli alla mensa della biblioteca pubblica. C'era da ridere un mondo, quando arrivava il momento delle barzellette targate silenzio, macchiate d'infedeltà al partito. “Perché il sole sovietico è così felice la mattina? Perché sa che di sera sarà in Occidente”, e giù a sganasciarsi, a darsi le pacche sulle spalle, nascondendosi da vicini più rossi della bandiera rossa sul Cremlino rosso.
S'accese nicotina nazionale e s'appoggiò a osservare la Neva. L'anziano si era dissolto nella luce di un tramonto perenne, come se non ci fosse mai stato. Allucinazione che poco impressionò la donna vestita di nero.
Da tempo vedeva cose che non c'erano, persone che non avevano mai visto la luce. Regista visionaria di epopee immaginarie, ogni sguardo un complotto, ogni fantasia una realtà. La mania di persecuzione la portò a cambiare porta di casa, fatto ingiusto in una società di giusti. “Che malafede compagna”, aveva sentenziato la sua vicina, togliendo il bucato asciugato dal gelo. Ma la sua casa non aveva balconi.
Fornello, televisione, mercato, un'esistenza degna delle migliori favole epico-eroiche, mentre Stakanov la osservava invidioso dal manifesto sopra il letto. La sua vita era un senso unico verso un mausoleo poco glorioso.
Si appoggiò alla barriera del fiume. Stava male. Guardò giù dove stava il busto dorato del passero della fortuna, sul quale i passanti gettavano rubli nella speranza di un futuro più luminoso. L'animale inanimato la guardava come a dire: “Tu, è inutile pure che ci provi”. La donna lo guardava come a dire: ”Tu, è inutile pure che me lo chiedi”.
Incomprensioni quotidiane.
Lena Smertova buttò lo sguardo giù e le venne voglia di buttarci giù se stessa. Quell'irrefrenabile impulso d'autoannientamento che la sorprendeva all'arrivo di ogni treno in metropolitana. Faceva sempre un passo indietro.
Questa volta no, si sporse a calcolare il vuoto che la separava dalla pace dei sensi. Gli argini erano stati alzati dopo l'ultima inondazione, giù le onde sbranavano il granito.
No. Troppo poco. Frattura della gamba e sussidio d'invalidità, magra ricompensa per un tentativo di suicidio stoico. Aveva bisogno di altro, l'eterna notizia di una morte voluta, lacrime sincere di parenti che non le avevano fatto proseguire gli studi.
“Ma Lenochka” miagolò la madre un giorno molti anni prima “che mani grandi hai, uguali uguali a tuo padre Ivan! Tu sì che sarai un'operaia degna di tale nome!” Lena con quella grandi mani avrebbe voluto impugnare grandi penne e scrivere grandi cose. Bionde favole, eroici articoli, un aggettivo di troppo, un verbo mancante. Ma la gloria del partito rosso esigeva anche altro. L'acciaio aveva lasciato troppi segni sulle sue dita.
Si girò verso la strada e capì perché la commessa l'aveva ammonita a non portare fuori la bottiglia di vodka.
Amava molto chiacchierarci, ci passava dei bei momenti. Con la vodka, s'intende. Guardò il triste vetro e pensò che sarebbe stato meglio rivalutare i propri rapporti interpersonali. Ma ora solo il miglio rosso l'attendeva. Buttò la bottiglia nel cassonetto con precisione missilistica e puntò verso casa.
Camminava come i pochi licenziati in una società di occupati. Riscopriva microcosmi, cani che pisciavano su muri lacerati dalla produzione quinquennale, odori colori e sbiadire del cielo fra nuvole e rifiuti.
Stava diventando polvere e ombra, nascondendosi da ragazzi che si baciavano su marciapiedi troppo alti. Il sogno comunista era così raggiunto anche nella differente statura d'indifferenti amanti. La città si stava addormentando ai piani alti e ridestando negli scantinati, fra fumo e malto. L'aria sapeva di gelida paglia, quell'odore prima di una nevicata che a Lena piaceva tanto mischiare con le sigarette Prima. Un nome ottimistico, per un'abitudine che non si ferma ai primi tiri cancerogeni.
Dolce e piacevole è per noi il fumo della Patria; l'aveva letto da qualche parte, non ricordava più: forse in un libro di Bulgakov o forse una qualche confezione di carbone. A ogni modo, non importava, l'essenziale è che aveva ragione.
Il tacco finlandese penetrò la fessura di un tombino e decise di rimanerci. Aveva un vicino che vendeva oggetti di contrabbando, ma l'avevano beccato e il suo arresto aveva liberato spazio vitale per la gioventù bolscevica. Decise quindi di tenersele strette perché un'occasione simile non si sarebbe ripresentata mai più, ed ecco che un mostro metallico addenta tutto quel ben di Dio occidentale. Provò a liberare la scarpa ma non c'era nulla da fare, i due oggetti sembravano fatti l'uno per l'altro. Scoppiò a piangere, nemmeno un suicidio come si deve le era concesso. Si liberò del fardello e riprese a camminare a piedi nudi sull'asfalto. La pelle si rilassò, provando l'ebbrezza di un massaggio inaspettato. Si girò indietro a ringraziare il sequestratore muto di oggetti proibiti. Un censore impeccabile.
Ubriachi signori giocavano a carte su una panchina, mentre sdentate vecchie vendevano ancora verdura agli angoli delle strade. I ponti si stavano alzando, dividendo la città per alcune ore, ma per fortuna Lena camminava sull'isola giusta. La sua isola, da cinquant'anni, il più bell'angolo di un mondo che stava andando a dormire.
Il sole si manteneva stabile sopra l'orizzonte, come a dare l'opportunità di redenzione alla donna scalza. Ma a lei questo poco importava, un'ansia strana la stava invadendo, il leggero presentimento di qualcosa d'ineluttabile. Accelerò il passo, sporcandosi sempre di più i piedi. Girò all'incrocio trovandosi di fronte alla sua casa.
Viveva in una комуналка. Un corridoio, un bagno, tante stanze. Scatole dei socialmente giusti. Nell'antro c'era un vecchio in canottiera e mutande, colesterolo fuori di cintura, che leggeva il giornale sotto i deboli raggi del sole. Imperava l'odore nauseabondo di ammoniaca e sapone per bambini, scarpe buttate come per non essere usate mai più. Lena Smertova guardò l'anziano signore che aprì la finestra per far entrare aria. Strizzava gli occhi sulla Pravda, come a sorprendere particolari invisibili.
La donna tirò fuori le chiavi, aprì la porta di legno ed entrò nel suo habitat. La finestra era ancora chiusa, dinnanzi a un antro che era sempre stato vuoto.
Appoggiò le chiavi sul letto e gettò un ultimo sguardo alla libreria che voleva fosse degna di tale nome. Dall'ultimo ripiano spuntava Il Maestro e Margherita, una copertina più sbiadita delle altre, evidente segno di apprezzamento. L'aria stava diventando troppo grave. Aprì la finestra e salì sul cornicione.
Giù per la strada non c'è nessuno. Voleva morire così, planando come una colomba sopra l'asfalto immacolato.
Voleva morire così, ripensando ai parenti serpenti e a un'esistenza che da rossa era diventata più nera della notte.
Sospirò, ma non riuscì a inspirare aria sufficiente e incominciò a girarle la testa.
Diede un ultimo sguardo alla sua reggia. Nessun rimpianto. Nessun pentimento.
Si buttò.
Arrivederci, Lena.
Si buttò, ma non riusciva a pensare a nulla, una testa leggera che stava cadendo dal settimo piano. Non pensò alla scrittura, non pensò ai genitori, si dimenticò dei suoi capri espiatori. Non c'era più nulla di bello nei verbi mancanti, nulla di bello nelle scarpe finlandesi. Non aveva più una cosa bella a cui pensare.
L'accelerazione di gravità faceva il suo dovere, mentre i capelli si dimenavano al passaggio di un'aria che era diventata improvvisamente gelida.
Cadeva, cadeva, e raggiunse velocità folli, quando il battito cardiaco cessò e tutto il sangue le andò alla testa. Evidentemente aveva più bisogno di globuli rossi, perché proprio in quell'istante, sì, proprio a dieci metri dal suolo, Lena realizzò che la cosa più bella era vivere.
Il suo corpo si schiantò al suolo. Un sordo tonfo riecheggiò per la strada deserta. La testa di deformò, la schiena si spezzò in più punti. Il sangue senza vita scorreva su un suolo che non era mai stato così comunista.
La sveglia suonò. Lena si rigirò nel letto.
Era un po' di tempo che faceva quel brutto sogno.
Decise che quel giorno avrebbe fatto qualcosa di diverso.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni