E dopo la tempesta… un arcobaleno!
Amelia. Un nome dolce, che scivola delicato dalle labbra. Questo era il nome che avrei dato a mia figlia, se mai ne avessi avuta una.
Se fosse stato un maschio l’avrei chiamato Leonardo. Completamente diverso da Amelia, perché Leonardo ti fa pensare a una persona forte e indipendente.
Ma non dovevo sforzarmi così tanto a trovare un nome per mio figlio. Perché non l’avrei mai avuto. Solo per colpa mia.
A sedici anni, il mio organismo non si era ancora sviluppato. Non avevo ancora quella fastidiosa perdita di sangue che ogni donna ha; quindi mia madre decise di chiedere il parere di un medico.
Pensate che stupore e che trauma quando mi disse che non potevo generare figli: ero nata sterile.
Dopo quella visita, rimasi isolata dal resto del mondo per giorni: andavo a scuola, non ascoltavo le lezioni, non parlavo con nessuno, uscivo da scuola, tornavo a casa, mangiavo a mala pena, facevo i compiti che non riuscivo a capire e poi andavo a dormire subito dopo cena.
Avevo smesso di vivere.
Ormai non vivevo più ogni singolo giorno pensando alla felicità della mia vita futura, ma passavo i miei giorni senza viverli davvero. Era sempre stato il mio sogno: sposarmi, avere una casa e tanti figli, magari con qualche animale domestico. Ma quale uomo mi avrebbe voluto? Nessuno. E quanti figli avrei avuto? Nessuno.
Ormai mi ero convinta che la mia vita era vuota e non serviva più a niente. Ero inutile all’umanità.
Fortunatamente, crescendo, cambiò il mio punto di vista.
All’età di ventun anni, incontrai Andrea, il mio attuale marito. Era un semplice cameriere di un ristorante che frequentavo spesso; quando lo incontrai per la prima volta, ero venuta lì per una cena: lo notai subito, poiché era nuovo e inesperto, goffo e impacciato; era buffo vederlo lavorare così e mi faceva sempre sorridere.
Quel giorno fece cadere due piatti sul pavimento che si frantumarono in tanti pezzi e, nell’intento di prenderli per non farli cadere, si tagliò una mano con un coccio di ceramica. Come punizione per la sua negligenza, il capo del ristorante gli ordinò di restare fino a tardi per ripulire i tavoli e i pavimenti, mentre gli altri tornavano a casa. Rimase lì per ben due ore a pulire tutto da solo tirando, ogni tanto, dei lunghi sospiri di spossatezza e guardandosi la mano dolorante.
Io ero rimasta a osservarlo fuori del ristorante, una volta finita la cena.
Solo quando guardai l’orologio legato al mio polso, mi resi conto che lo stavo osservando da più di due ore. Decisi di entrare nel ristorante e parlargli, anche se, teoricamente, non potevo farlo. Lui me lo fece notare subito, ma io mi giustificai tirando fuori dalla borsa il kit medico che mi portavo sempre appresso e dicendo che volevo medicargli la ferita alla mano.
Lui si ritrasse subito, bisbigliando qualcosa come: «Non ce n’è bisogno».
Ma non ero decisa a mollare e così gli dissi che stavo frequentando l’università per ottenere la laurea e diventare infermiera, cosa vera e che, perciò, non era affatto un peso per me. Alla fine, lui accettò e gli curai la mano ferita mentre tentavo di sostenere un dialogo con lui. Non fu affatto difficile: Andrea era molto simpatico e diceva tutto ciò che gli passava per la testa. Anche dopo avergli fasciato la mano, rimanemmo a chiacchierare per più di un’ora e così ebbi la possibilità di conoscerlo meglio: era di un anno più giovane di me e aveva finito da poco gli studi all’istituto alberghiero. Gli chiesi se aveva intenzione di frequentare anche lui l’università un giorno e lui annuì, ma mi disse che doveva prima guadagnare i soldi lavorando.
Io non avevo mai avuto problemi finanziari: non avevo mai avuto problemi a pagare le rette dell’università né le bollette né l’affitto. Per questo, quando me lo disse, sentii come una fitta al cuore: sentivo, per qualche motivo, dei terribili sensi di colpa.
Mi raccontò poi della sua vita: a quanto pare era un orfano che non aveva mai trovato una famiglia pronta ad accoglierlo, i suoi genitori erano morti durante un’escursione a cui lui non aveva partecipato…
Una tempesta si era abbattuta sul loro traghetto. Lui aveva solo quattro anni quando successe, ma si ricordava perfettamente dell’abbraccio forte e possente del padre e della voce tanto gioviale e dolce della madre che gli sussurrava: «Ci vediamo tra qualche giorno, angioletto».
Dopo quell’estate in cui i suoi genitori non tornarono, Andrea fu costretto a spostarsi da un istituto all’altro, ma nessuno lo adottò. All’età di diciotto anni, lo cacciarono dandogli solo un po’ di soldi in mano, per far spazio ad altri bambini che, purtroppo, sarebbero arrivati; così, dopo aver frequentato la scuola e raggiunto il diploma, cominciò ad andare in giro in cerca di lavoro in qualche piccolo ristorante; passò da un lavoro all’altro, ma lo cacciarono ogni volta. Lui, mi disse, sperava che questa fosse la volta buona.
Subito dopo il suo racconto, lui pronunciò quella frase, la frase che per me era un tabù: «Adesso raccontami di te».
Mi sentii in dovere di farlo dopo ciò che lui mi aveva raccontato e così, con una dolorosissima fitta al cuore, gli raccontai la mia vita. Fortunata per moltissimi versi, ma sfortunata alla nascita. Lui sembrò profondamente dispiaciuto per me, tanto che afferrò le mie mani e le strinse tre le sue, dicendomi che nulla capita per caso, ma che, magari, Dio mi aveva dato l’opportunità di fare del bene, di adottare un bambino e renderlo felice, come non lo era stato per lui.
Nei giorni seguenti, cominciai a informarmi sull’adozione, stavo ore e ore a leggere articoli e a navigare sul web, tanto che adottai addirittura un bambino a distanza. Fui felicissima quando, aprendo una lettera spedita dall’associazione a cui mandavo ogni mese i soldi per il bambino, lessi che aveva potuto cominciare ad andare a scuola e ad avere una buona alimentazione.
In quel periodo, vidi spessissimo Andrea: gli parlavo, mi confidavo con lui e scherzavo. Non passò molto tempo quando capitò il nostro primo bacio, in un parco, al chiaro di luna, proprio come me l’ero immaginato. Ricordo perfettamente l’emozione che mi invase quel giorno, dalla punta dei capelli fino ai piedi: amore.
Non mi ero mai innamorata seriamente di un ragazzo prima di allora, ma Andrea era diverso, talmente dolce che era impossibile non volergli bene.
Sposai Andrea dopo cinque anni di momenti indimenticabili e bellissimi.
Mi ricorderò sempre l’incantevole vestito da sposa che mi aveva cucito mia sorella, quel vestito che mi portò all’altare sicura di ciò che stavo facendo, bianco, puro, stupendo. Il velo che mi partiva dalla testa e si trascinava sul pavimento era delicato e trasparente, la gonna gonfia ma leggera, le mezze maniche delicate, i guanti di seta mi accarezzavano la pelle mentre reggevano il bouquet: il tutto completato con alcune margherite artificiali rosa pallido sparse sul vestito.
Nel memorabile giorno delle nozze tra me e Andrea, le nostre vite, i nostri cuori, si unirono per formare un solo, dolce, insieme.
A ventotto anni, dopo due anni di matrimonio, riuscimmo finalmente ad adottare una bambina, Kelly e, fin dal nostro primo sguardo, ho capito subito di aver fatto la cosa giusta ad adottarla. Era una dolcissima bambina di otto anni, quindi era consapevole di ciò che stava succedendo, ma cercai di non badare molto alla cosa e di comportarmi il più normalmente possibile.
Ricordo di averle afferrato con delicatezza la sua minuscola manina e di averle fatto fare il giro della casa. Il suo sguardo non era particolarmente felice, ma neanche triste, solo confuso. Ma era normale: era solo l’inizio della nostra conoscenza.
Andrea le dava sempre molto amore e attenzione: ogni volta che vedeva il dolce visino di Kelly che gli sorrideva, il suo si illuminava, accendendo a sua volta un sorriso pieno di pura gioia.
Negli anni che seguirono, adottammo altri due bambini: Michele e Roberta. Michele arrivò prima di Roberta. Più piccolo di Kelly di quattro anni, lo adottammo quando ne aveva sei, mentre Kelly già dieci. Roberta, invece, la adottammo quattro anni dopo Michele, alla tenera età di due anni; Kelly a quel punto era ormai una signorina, mentre Michele si preparava per le medie.
Kelly, Michele e Roberta non erano biologicamente nostri figli, ma non c’era nessuno, neanche Andrea, a cui volessi più bene di loro. Erano i nostri figli. Punto e basta. Li avevamo cresciuti noi e niente mi rendeva più orgogliosa.
Alla fine i miei sogni si erano avverati: avevo una casa, un marito e dei figli perfetti, bravi a scuola e gentili con tutti, anche se a volte litigavano e si facevano male ma nulla era duraturo e raramente riuscivano a tenersi il muso l’uno con l’altro per più di un’ora.
Ora io ho sessantanove anni. I miei figli hanno frequentato tutti l’università e si sono laureati con voti più che notevoli; tutti si sono sposati: Kelly aspetta un figlio che non vedo l’ora di conoscere, Michele ne ha già avuto una da sua moglie Anna, mentre Roberta è fresca di matrimonio.
Niente mi rende più felice di vedere i miei figli felici. Ora posso dire di aver vissuto appieno la mia vita.
E, per adesso, aspetterò il mio lieto fine accanto ad Andrea: l’amore della mia vita.
Racconto questa storia a te, mio caro lettore, perché tu capisca che qualsiasi sciagura ti accada non è un buon motivo per non essere più felice e che, se quella determinata sciagura succede a una determinata persona, c’è sempre un motivo. Un motivo che va ben oltre la nostra comprensione. Ognuno di noi nasce con un compito specifico che, solo i più fortunati, comprenderanno quando saranno alla fine della propria vita. Il mio compito è stato rendere felici dei bambini che non lo erano.
E ne sono stata appagata? Assolutamente sì.
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