Wish you were here
La poesia, che al giorno d’oggi è sempre più in via d’estinzione, trova nuove vesti tra le melodie e le parole della musica, di qualsivoglia genere: dal Rap, alla musica d’autore, sino al Rock. Wish You Were Here dei Pink Floyd è un’opera d’arte tanto preziosa quanto un Picasso, non solo per la melodia ricercata che subito, al primo ascolto, evoca l’intimità di casa, bensì è un capolavoro per il messaggio che custodisce, che si piega all’interpretazione che ognuno di noi ne fa. Questa è la mia:
1982
Mi alzo di scatto dal divano. «Che ore sono?». L’orologio sopra alla credenza fa un quarto alle sette, e subito tiro un sospiro di sollievo: c’è ancora tempo. Il sole arancione filtra dalle gelosie in legno scuro che spalanco con un movimento secco. Preparo un caffè: è proprio quello che ci vuole per darmi una scossa e togliermi di dosso tutto questo torpore. Mentre la caffettiera è sul fornello, corro in bagno a sciacquarmi il viso, un po’ per rinfrescarmi, un po’ perché quello è un gesto catartico: scorre l’acqua, scorrono i pensieri, scorre il sangue. Sono ancora qui, vivo. E perfettamente in orario! Mi verso il caffè in una grande scodella, faccio scivolare mezzo cucchiaio di zucchero e lo sorseggio davanti al davanzale. I mattoni sabbia della corte di Vicolo Tramontana sembrano scintillare e proiettare bagliori dorati sulle balle di fieno e sulla recinzione della stalla.
La stalla sta proprio sotto casa mia; un tempo nonno Luigi ci allevava una o due coppie di capre e, talvolta, qualche mucca; nonno se ne è andato, e con lui anche le bestie. Quello spazio angusto ora è solo una grande scatola dei ricordi, dove dorme tutta la robaccia in disuso. Vado spesso a farci visita. Mi piace sfogliare le vecchie fotografie di mia madre, mi rincuora saperla sorridente nella sua gioventù un po’ disgraziata. Fuori dalla stalla, tra l’erba trascurata e appiattita dalle suole del via vai, si fa spazio un selciato che conduce a un portico che incornicia i depositi di via Roma 60. Proprio lì, in quel sentiero sterrato, sono solito scorgere un Ciao abbandonato sul terreno. Oggi però il mio sguardo non riesce proprio ad acchiapparlo.
Sono venuto a conoscenza che il Comune ha dato il via ai lavori per demolire quel fazzoletto di terra. Il perimetro è circondato dal nastro rosso e bianco, e sulla porta c’è un’insegna: al posto del deposito malconcio sorgerà una Chiesa. Una Chiesa in più era proprio necessaria per un paesino di 800 abitanti, dove l’unico intrattenimento è l’acqua tonica al bar di Biagio e le partitelle al campetto di Via Gorizia. E chissà come saranno gaie le vecchiette! Già me le vedo io, tutte raccolte come uno stormo di corvi dai capelli cotonati e labbra pasticciate, sul piazzale della nuova Chiesa alla messa delle sei a spettegolare sulla figlia sedicenne della Carla che è gravida, sulla panettiera che è dilaniata dai debiti e sulla Rosa che copula col farmacista mentre suo marito è in Francia a lavorare. Oh Gesù! Butto giù un altro sorso e cerco di sintonizzare la radio; questa sera mandano Italia Germania e, prima di raggiungere il Conte da Biagio, accendo la radio per ingannare il tempo. Passa Battisti e lo canticchio svogliatamente mentre fisso il fondo della tazza; poi una melodia roca colpisce il mio ascolto… un colpo di tosse e una voce calda riempie la stanza. Non ho idea di che canzone sia, ma è meravigliosamente triste. Io non capisco l’inglese; chi è abile a farlo spesso deve dire grazie a papà. Mio padre è morto un anno fa e i miei spicci, quelli che nascondo sotto al materasso quando sono di ritorno dalla fabbrica, sono talmente miseri che non faccio tempo a nasconderli che svaniscono il dì seguente. Tuttavia, il materasso, a poco a poco che s’avvicina il trentuno del mese, è sempre un po’ più comodo.
Il tipo alla radio canta con tale passione che sembra delineare il volto di una donna bellissima dal viso dolce e olivastro, le labbra turgide strette tra i denti e gli occhi ebano, di una gentilezza disarmante, che scorrono sulla carta rilegata.
Melissa, la ragazza del Ciao. È una liceale sui sedici o poco più che trovo sempre al deposito intenta a leggere qualche libro. L’ultima volta l’ho sbirciata dalle fessure delle gelosie, aveva Orgoglio e Pregiudizio davanti al naso. Ama la letteratura inglese ottocentesca. Ama i gentiluomini e le donne temerarie, come Lizzy. La volta scorsa invece era seduta sulla recinzione del deposito, vicino all’entrata, e sembrava osservare il cielo con tanta rabbia da farmi subito rammentare l’incipit de Le Notti Bianche di Dostoevskij.
Melissa è bella da far male. Bella pure quando, con le ginocchia al petto, piange e nasconde il capo nella sottana. Non conosco nulla di lei, se non quello che vedo e, lo giuro, davanti ai miei occhi ho visioni dolcissime che non avevo mai assaggiato prima d’ora. Melissa è l’odore dell’asfalto bagnato, è un goal al novantesimo minuto, è il formaggio sui fusilli al sugo. Melissa è correre sulla sabbia bollente, scottarsi la pianta dei piedi e trovare pace non appena si raggiunge il bagnasciuga, perché, io lo so, Melissa vale questa corsa sui carboni ardenti. Melissa è la musica, questa musica.
Come vorrei che fossi qui; io non mi farei vedere, ma tu mostrati. Brilla. Splendi. Eppure oggi non ci sei, e non so per quale motivo, ma questo è il fatto, e fuori il sole è calato, tutto è nero, e scommetto che fra poco inizierà a piovere. E vorrei disperatamente tenere tra le mie mani le tue, non una tazzina; e vorrei che tu fossi la persona con la quale guardar fuori quando piove.
2002
Scalcio con un movimento repentino le scarpe dai miei piedi indolenziti, e me ne pento: spero ardentemente che il baccano non sia stato tale da svegliare Agnese. Silenziosamente vado a controllare, e… no, mia figlia dorme beata. È meravigliosamente serena, tutta ricoperta della sua infantile spensieratezza. È bella come suo padre.
Ritorno in salotto e finalmente mi tolgo la giacca. Il lavoro al call-center mi distrugge: ho la schiena dolente, la testa che scoppia, e ho voglia di un tè. Metto subito il bollitore sul fornello, e… tregua! Finalmente mi sdraio sul divano. Il mio corpo si adagia senza difficoltà tra i cuscini, ma la mia mente no, non c’è sosta per lei, c’è solo strada. Chilometri su chilometri da macinare, cerco di non sbandare, ma le mani tremano sul volante. Ho tanta paura. È così tanta da impedirmi di agire.
Agnese ha cominciato la prima elementare e mi dimentico di andarla a prendere fuori da scuola. Le maestre tentano di giustificarmi, ma non c’è perdono alla mia negligenza.
Mia madre paga le bollette per me. Va in posta e sborsa il denaro di tasca sua, il mio stipendio non basta per due; sebbene lavori come una forsennata – solo questo so fare – i soldi non sono mai abbastanza. E nemmeno la dignità lo è. Sono al verde. Sono senza te.
Da quando te ne sei andato ho perso parecchio peso, e la paura mi impedisce persino di salire sulla bilancia. Il mio volto è sciupato, la fronte segnata da grinze e gli occhi sono gonfi; vorrei chiuderli e dormire, dormire per sempre. Ho trentasei anni sui documenti. Ottanta nelle gambe.
Quella che vivo è una notte perpetua.
Estate 1982. Vorrei rivivere quella notte, non questa. Ti ricordi?! Eri lì, fuori dall’uscio di casa mia, a fumare una Marlboro con i Carrera cinque tasche sulla sella della Vespa. Non sapevo chi fossi, non conoscevo nulla di te; eppure, non appena sporsi il mio corpo vicino alla finestra per guardarti meglio, subito seppi che quell’omino un po’ impacciato sul motorino era lo stesso che, ogni pomeriggio, mi spiava dalle gelosie della sua casa gialla, quella vicino al deposito dove mi rifugiavo a leggere. Risi fino alle lacrime, così fragorosamente da svegliare mia sorella. Mi nascosi dietro l’anta dell’armadio e iniziai ad osservarti. Avevi l’aria di uno che attendeva qualcosa, o forse qualcuno. Il sole era già calato, ciononostante la via era gremita di tifosi; quella sera davano la partita della nazionale e i più fortunati andavano a seguirla da un amico, ma la maggioranza si incamminava in direzione del bar di Biagio. E tu, Paolo, chi aspettavi? Mi sembrava triste il tuo sguardo. Triste e bello come i racconti di Dostoevskij . I tuoi occhi saltavano dall’orologio sul polso al principio della strada. Tra una boccata di tabacco e l’altra serravi la mascella, il tuo profilo si faceva duro e, dopo una manciata di secondi, non appena il desiderio di un altro tiro si faceva impellente, rilassavi il volto. Poi, a un tratto, hai rivolto il tuo sguardo verso la finestra, e subito mi ritrassi dietro l’anta, sbattendo le scapole sul duro legno.
Quante volte presi quei colpi. Tante volte, sino a quando non dovetti più guardarti dietro a un vetro.
Per vent’anni ho osservato i tuoi occhi, sempre puliti, sempre onesti. Poi, come un temporale estivo, te ne sei andato improvvisamente e mi hai lasciata sola. Le fotografie non saziano la mia voglia di guardarti, Paolo. E neppure le tue camicie che nascondo tra le lenzuola colmano il vuoto di un tuo abbraccio.
Come vorrei che fossi qui.
Come vorrei trovarti sulla poltrona ad aspettarmi, intento ad ascoltare i vinili con la tua immancabile sigaretta tra le dita. Mi avresti accolto con un sorriso grande e un bacio in fronte, e subito ti saresti adoperato per preparare la cena. E mentre l’acqua era sul fuoco, ti saresti steso accanto a me e avresti preso in grembo i miei piedi e li avresti rilassati con un dolce tocco. Sono sicura, avresti fatto tutto questo, e non perché eri solito cedere alle abitudini, ma perché sembrava che, ogni qual volta si apriva la porta di casa, tu aspettassi me come un cane aspetta il suo padrone.
Oggi ho varcato la soglia di casa e non ho trovato il tuo sorriso dolce, ma solo una pila di panni da stirare che mai troveranno posto nell’armadio. Nessuno mi massaggia i piedi, e il bollitore fischia e mi stordisce, ma non mi alzo, ché ho già la nausea per tutti i tè che bevo da due settimane a questa parte.
Sono sola, e tu sei morto, MORTO.
Non sei in Paradiso; io credo a quel che vedo, e davanti a me vedo un vuoto che ogni giorno cerco di schiacciare volgendo il mio sguardo fuori dalla finestra, e non vedo la tua Vespa, e non credo, non credo più a niente.
Di scatto mi alzo dal divano e mi trascino in bagno. Getto la testa sotto il rubinetto. Dopo secondi infiniti la rialzo, e fisso la mia immagine allo specchio. Ora lo so: so dove sei, so dove siamo. I miei occhi neri si fondono con i tuoi blu, come il mare dopo un temporale. Siamo solo due anime perse che nuotano in questo mare.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni