Profumo di primavera
Un raggio argentato perfora l’aria.
Un fulmine.
Attraversa la porta invisibile che conduce al cielo e illumina una stella morente, e io lo vedo.
Riesco a vedere ogni cosa.
Lo spostamento di una foglia secca e abbandonata dall’albero madre, il disfarsi e il ricomporsi di tutte le nuvole esistenti, l’abbraccio dell’acqua che si congela e il lamento di un umano che non riesce a prender sonno.
Vedo, sento, percepisco semplicemente il tutto.
Un’altra stella si spegne. Il mio marchio pizzica e io so che è il momento.
Serro le iridi violacee per pochi secondi e respiro profondamente per poi prendere lo slancio e catapultarmi nel vuoto.
Il tutto non dura che pochi secondi e mi ritrovo con i piedi a contatto con la strada asfaltata che soffoca una natura fatta di erba ormai morta da anni. Non apro ancora gli occhi ma mi concentro.
Un’energia invisibile mi circonda e crea un vortice fatto di scintille, il silenzio domina. E poi lo sento.
Un respiro.
Sì. Un respiro, il respiro.
Non perdo tempo, ho trovato il bersaglio di questa notte.
Un balzo e i miei piedi, come tutto il corpo, sono sospesi in aria e mi dirigono verso un punto preciso.
Il marchio pizzica sempre di più e so che l’unico modo per farlo smettere è farlo.
Mi fermo, i capelli volano spinti all’indietro e gli occhi di un bambino mi guardano. Terrorizzati e allo stesso tempo affascinati. Non può urlare, non vuole, perché io non voglio che lo faccia.
Mi avvicino lentamente mentre lui rimane immobile. Avrà sì e no otto anni.
Sorrido, forse cercando di risultare rassicurante, ma sicuramente con scarsi risultati fino a quando non mi trovo a pochi centimetri dal suo naso.
Lo guardo un’ultima volta negli occhi e poi, senza un urlo, gli afferro il cuore, ascolto il respiro che mi ha condotta a lui e penso che questo è l’ultimo respiro che farà nella sua vita mortale.
L’ultimo soffio di vita di questa creatura prescelta dalla malasorte.
E stringo forte. Molto forte, finché l’azzurro pallido dei suoi occhi non diventa trasparente e il suo corpo non mi cade fra le braccia.
Bisogna essere freddi, decisi… bisogna essere come me. Una guardiana. Un mostro disperato.
È l’unico modo per poter mantenere il giusto ordine delle cose, per far sì che la natura non muoia.
Cento. Questo è il numero che aspetto, che aspetta il mio marchio. Ogni cento fulmini che colpiscono il cielo richiedono un sacrificio, e il motivo è semplice, quasi banale agli occhi degli stolti.
Un giorno di primavera, di fioritura, di vita.
Ciò che più amo del mio mondo è proprio questo, il giorno in cui tutto fiorisce invece di essere congelato e freddo com’è di solito.
Ciò che invece non amo, ma che anzi detesto è il modo in cui si arriva a questa meraviglia.
Il sacrificio di un bambino. Un sacrificio che io stessa devo compiere e a cui devo assistere ogni volta.
E mentre la magia della primavera, spinta dallo spegnersi di questo povero cuore inizia a sprigionare il proprio calore, dentro di me qualcosa si raffredda. Poiché sono io colei che procura dolore.
Un dolore da spartire tra me e la mia povera vittima, ma non posso farne a meno, questo è ciò che deve essere fatto.
Il corpo che ora è sdraiato per metà sui miei piedi viene lasciato a marcire, mentre io risalgo in cielo senza lacrime ma con una sensazione molto più tremenda del semplice voler piangere. A consolarmi c’è però un bocciolo, il primo fortunato che nascerà in questa giornata di fioritura su un albero di ciliegio maestoso e nero come la pece.
***
«Haruka…».
Un sussurro. Un soffio. Il mio nome.
Rinvengo dal vuoto buio del mio sonno e apro gli occhi. Davanti a me non c’è nulla, non c’è nessuno.
La prima cosa che percepisco è il profumo. Sì, il profumo di fiori sbocciati da poche ore che stanno già marcendo. Il marchio non pizzica come al solito, ma brucia!
Qualcosa non va, e questo qualcosa ha un nome.
Inazuma. Il centounesimo fulmine, che non dovrebbe esistere.
Una folata di vento mi colpisce all’improvviso e porta alle mie orecchie il suono di un urlo umano.
No. Non di un semplice umano, ma di quel umano.
Non so cosa mi succeda all’improvviso, ma sparisco. E ricompaio davanti al nemico, all’umano.
So benissimo, senza nemmeno dovermi sforzare di percepirne la presenza che quest’umano è posseduto e che è incosciente. Ha addosso solo il pigiama grigio e gli occhi chiusi come al solito, e so per certo che se anche potesse aprirli non vedrebbe altro che un nero opprimente come quello che ha visto da quando è venuto al mondo.
Cieco. Ecco la parola che utilizzano gli umani per descrivere questa strana condizione di impotenza.
«Haruka…».
L’uomo posseduto non apre la bocca ma la creatura che si è insediata al suo interno riesce a chiamarmi ugualmente, sta comunicando telepaticamente con la sottoscritta. Poco male, vuol dire che potrò insultarlo senza nemmeno dovermi sforzare di muovere i muscoli della bocca.
«Bastardo… Inazuma, io guardiana dei fulmini ti ordino di lasciare immediatamente il corpo di questo povero essere umano e di tornare al frammento di cielo da cui sei venuto!».
Il mio pensiero risuona forte e autoritario, ma ciò che causa nell’essere è solo una grossa risata e una secca risposta. Una risposta sbagliata. «No».
Due secondi.
Questo è il tempo che ci mette a raggiungermi la scintilla di elettricità scagliata dalla mano dell’umano.
Un secondo. Il tempo che la mia mano ci mette a inglobarla e a disperderne gli effetti fulminanti.
Stringo l’energia nella mia mano e ora assomiglia a una palla di energia splendente.
«Non hai ancora imparato a non infastidirmi».
«Allora uccidimi».
Sorrido. Non ha proprio ancora imparato nulla. Ma si sa, i fulmini non imparano mai a stare buoni.
«Sai benissimo che non posso».
E con un semplice movimento delle dita rispedisco la scintilla da dove è venuta.
L’umano spalanca gli occhi, sono bianchi, vuoti, sono gli occhi di un uomo cieco, e inizia a tremare in modo terrificante.
Il corpo di un umano colpito dall’elettricità in questione accusa la scossa, ma essa non gli può essere mortale, è solo sufficiente a espellere l’intruso all’interno del suo corpo. Ed è questo ciò che succede. Come un fulmine che cade dal cielo, Inazuma grida per l’ultima volta e viene rispedito da una forza più grande di lui in cielo.
La mia forza. Seguo con lo sguardo il suo ultimo viaggio chiedendomi quando ancora si ripresenterà a rovinare il mio lavoro ingrato, ma un rumore mi costringe ad abbassare gli occhi.
L’uomo è caduto a terra.
Non sono abituata a dover raccogliere il corpo di un umano, poiché solitamente è inutile spostarlo. Se è senza vita la terra lo richiamerà a sé come il cielo fa con l’acqua e i fulmini ormai esauriti.
Ma questa volta è vivo, ha un cuore che batte, un cuore che non ho stretto tra le mie crudeli e assassine mani.
Mi avvicino cautamente a lui e lo prendo in braccio, dorme serenamente. Poi chiudo gli occhi e quando li riapro sono nella sua abitazione, davanti a quello strano oggetto rettangolare e morbido che utilizzano gli esseri umani per dormire. Ripongo delicatamente il suo corpo su quel giaciglio e mi allontano.
Mi sembra di conoscerti da sempre e forse è proprio così, ti ho notato in una notte lontana, una notte in cui i fulmini sembravano aver voglia di raggiungere il numero cento a tutti i costi quasi stessero facendo una gara tra di loro.
Tu eri terrorizzato e mi pregavi, inconsciamente, di farli smettere.
Tu sei colui che teme ciò di cui è fatta la mia pelle, il mio sangue e persino il mio cuore.
Sei colui che non potrà mai vedermi, se un giorno il marchio mi condurrà da te per ucciderti.
Ti prego fai che non arrivi mai quel giorno…
È veramente triste il destino di una persona che non può vedere.
Quest’uomo non potrà mai godere della vista della natura floreale che io tanto mi impegno di far crescere, non vedrà mai i colori straordinari dei petali, dei prati… non vedrà nulla. Ma sentirà il profumo. Il profumo della primavera. Il mio profumo, ed è questo ciò che conta.
Haruka, il nome che mi è stato affibbiato da un sussurro nel cielo. Un nome adatto e allo stesso tempo inadeguato, che significa profumo di primavera.
E spero che sia questo profumo ciò che senti ora, mentre premo le mie labbra sulle tue, fredde e pallide.
Poi sparisco e torno nel luogo in cui dovrei essere, vergognandomi per essermi distratta dal mio compito di guardiana anche se solo per pochi attimi.
Non saprò mai che quello che ho fatto ha creato ciò che solo la morte di un cuore di solito permette di creare.
Sul tuo cuscino è appena apparso un bocciolo.
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