Come facevano i Greci
Il giorno in cui i soldati in nero marciarono sulla capitale si levarono molte braccia al cielo. Ma la gente non protestava alzando i pugni chiusi in segno di sdegno; le mani erano aperte, le dita parallele e i palmi rivolti verso il basso, per dimostrare rispetto o comunque approvazione, per quanto riguardava il nuovo ordine delle cose.
Personalmente, constatai solo il fatto che tutti i negozi fossero chiusi, e che quindi non avremmo mangiato frutta dopo cena. Inutile dire che non avevo idea di cosa stesse accadendo intorno a me. Pensando alla reazione di mia madre vedendomi tornare a casa a mani vuote, mi muovevo lentamente e allungai il tragitto di qualche isolato. Raggiunsi il mio palazzo appena in tempo per vedere una colonna di fumo nero levarsi dall’immensa desolazione di una città che sembrava quasi deserta: la cosa non mi stupì più di tanto, perché prestai più attenzione al fatto che anche la farmacia dove i miei lavoravano era sbarrata in pieno orario di apertura.
Capivo che qualcosa non andava e corsi fino al nostro appartamento; dalla tromba delle scale si sentiva il rumore gracchiante della radio provenire da ogni casa, e tra un respiro e l’altro le mie orecchie da sedicenne captarono parole finora da me ignorate: pronunciamento militare, colpo di stato, etc…
Trovai la mia famiglia sul divano del salotto: mio padre somigliava molto a Il pensatore di Rodin; però, lui non sembrava immerso nell’otium filosofico che viene in mente a chi ammira quel capolavoro in bronzo: aveva un’espressione preoccupata sul volto e non sapeva come consolare mia madre, che sedeva con la testa tra le mani e un brutto presentimento. A questo, però ci stava pensando il mio fratellino, che riversava su di lei tutto l’amore che un bambino di sei anni può avere nei confronti della propria mamma.
A quel punto, mi sedetti anche io ad aspettare, quando l’altro mio fratello, poco più grande di me, che tornava dal centro, ci illuminò sulla natura dei fatti: dopo un anno di criminalità imperversante e di disordini, era stata imposta una dittatura, che proponeva, anzi imponeva ai suoi nuovi sudditi un equo scambio: la calma in cambio della libertà.
Anche perché il secondo termine dell’accordo non era stato specificato, la cosa era stata vista positivamente da molti e la presa del potere, salvo imprevisti (un tram in fiamme e una quarantina di arresti), fu indolore.
Passò un anno, durante il quale tutti quelli che, come la mia famiglia, non erano d’accordo a lasciare i propri diritti al nuovo idolo, impararono a tacere, o furono obbligati silenziosamente a farlo. Però, io mi ricordo questo periodo come il momento in cui iniziai a interessarmi alla lettura.
Imparai ad affinare i miei gusti, e diressi il mio interesse verso i romanzi e alcune biografie. Tra tutto ciò che immagazzinavo, mi colpì Tempi difficili, di Charles Dickens; passai circa una settimana a riflettere sulle condizioni in cui lavoravano gli operai delle industrie inglesi, ridotti ai più bassi margini della società, costretti a vivere come schiavi: schiavi di chi li sfruttava, schiavi delle macchine, che con il loro moto perpetuo regolavano i ritmi di vita di chi le usava, ma soprattutto schiavi di se stessi, della loro condizione, per il fatto di essere nati come tali, e di venire oppressi da una società che non ammetteva cambi di posizione.
Eppure queste persone erano dotate di una dignità senza precedenti e, pur non potendo assaggiare tutto ciò che dava piacere alla vita, dimostravano la loro superiorità rispetto a chi si trovava dalla parte della tavola che ospitava l’intero banchetto. Uno dei protagonisti, Stephen Blackpool, nient’altro che una “mano” utile solo a lavorare, che sostiene il peso di una moglie alcolizzata e prostituta, viene respinto da tutti, sia dall’alto che dal basso, e anche accusato ingiustamente di omicidio, ma cerca uno scopo solo nella sua vita: poter concretizzare il suo amore per una dolce donna nelle sue stesse condizioni, ai margini di una società inclemente.
Grazie a lei, riesce a dimenticare anche per un solo attimo le sue disgrazie, godendosi un centimetro inviolabile di libertà. Dall’altro lato, il potente imprenditore Bounderby si crogiola in un’ipocrisia senza fine, che lo ha trasformato in un esempio da seguire, per tutti coloro che inutilmente scalano quel dirupo che è la piramide sociale; la sua prestigiosa collocazione, però non gli risparmia di andare a far parte della feccia della “piramide morale”, purtroppo del tutto fittizia e poco influente nella vita di tutti i giorni.
A pensarci bene, la situazione mostrata da Dickens, non era differente da quella in cui vivevamo: senza dubbio, non eravamo ridotti alla condizione di “nient’altro che mani”, la mia famiglia gestiva un’impresa e la qualità della vita non era generalmente peggiorata; l’incapacità di formulare un proprio giudizio, la mancanza di ogni diritto, il fatto di stare sospesi tra la tranquillità e la rovina più totale, erano tutti elementi che facevano riflettere, ma a cui nessuno voleva o osava pensare.
Nonostante la lettura teoricamente mi distraesse quasi del tutto dalla realtà dei fatti, stavo cominciando a realizzare l’addensamento della cappa di menzogna che si andava creando, il tentativo di tutti di rimanere al di fuori di questioni socio politiche, il terrore di possibili arresti notturni, che si risolveva in una sdrammatizzante risata di sollievo la mattina dopo; mi ricordo di aver assistito a tre arresti nel mio palazzo, nel giro di due settimane: poi seguirono altrettanti traslochi, e avevo come vicini di casa personaggi facoltosi alla guida di uno stato da loro definito come “prospero nel rispetto delle Istituzioni”.
Attualmente, se volessi descrivere esattamente come andavano le cose mi basterebbe aprire un libro di Isabel Allende, la musa che ha parlato con la bocca di migliaia di cileni, che furono oppressi anche loro sotto una pesante mora di ingiustizie e morte.
Quando un anno fa lessi il suo primo libro, La casa degli spiriti, ebbi un sussulto, nel vedere come era stato ricreato bene un clima di terrore e oppressione: come reagiva la maggior parte della gente, la paura di perdere tutto, la profonda ingiustizia che regnava sovrana. Questo romanzo mi ha riportato alla memoria quello che io considero il momento della mia rovina, quando non potei più fare affidamento sui libri.
Un po’ di tempo dopo il mio approccio serio alla lettura, iniziai a mettermi in sintonia con i personaggi e intrattenevo con loro anche conversazioni (sul piano prettamente spirituale, si intende).
Passai diverse ore a chiedere chiarimenti alla creatura del Dottor Frankenstein circa la sua natura: giunsi alla conclusione che tutto il male scatenato da lui è frutto di immense sofferenze e colpe subite. Provai tanta compassione e tenerezza nei suoi confronti: la folle ambizione di un dottore, che vuole ricreare la vita dopo la morte, dà origine a una creatura mostruosa, non amata da nessuno; da tutto ciò, solo dolore e morte. Ripensandoci, avverto un profondo senso di solitudine: sarà mai capitato davvero a qualcuno di rimanere solo in un limbo di tristezza, di non averne alcuna colpa, di rimanere accecato da un odio feroce e compiere le azioni più efferate?
Intrattenendo simili discorsi, passavano spesso interi pomeriggi, e si potevano scoprire i lati più reconditi della realtà di un libro. L’atto di invocare un personaggio, oltre a chiarire molti dubbi, ci svela anche come siamo fatti dentro, perché in questo caso non serve nascondere ciò che si prova dietro a una maschera di ipocrisia: avevo sempre pensato che il fautore di un omicidio non avrebbe mai meritato la mia compassione e invece, una creatura che non chiede altro che felicità e comprensione, fino a giungere all’odio, mi ha riempito di tristezza; dall’altro lato, la mia empatia è stata pari a quella di una pietra di fronte al vero responsabile di tutto ciò, che crea l’incarnazione della vita dopo la morte e la respinge, dando il via a una scia di morte. La cosa più importante, però consisteva nel fatto che la mente scivolava su un piano diverso dalla vita reale, dove nessuno aveva il diritto di decidere sul mio parere. Come tutto ciò che è bello, però, anche queste esperienze cariche di magia finirono.
Ma non fu un finale dolce, non fu certo un congedo accompagnato da un bacio.
Quel giorno stavo tornando a casa con il mio fratellino; ero felice, gli stringevo la manina incapace di fare del male a chiunque, camminavamo e ridevamo. A un certo punto vidi una colonna di fumo nero, quasi identica a quella che segnò l’inizio della sventura, ma più minacciosa. Neanche il tempo di battere un ciglio, che una mano mi strappò via il libro che tenevo sotto braccio. Poi un ricordo sfocato: un poliziotto mi parlava di libri proibiti dalla legge, di arresto, la mano di mio fratello che mi stringeva… Poi quella parola: “rogo”. Quella parola da quattro lettere, che da tempi immemori è distruttrice di tutto, dalle streghe, ai libri. Adesso bruciavano anche i libri.
Ma che colpa avevano i libri? È forse un reato che della carta esprima le emozioni più profonde di chi scrive e sia una fonte di piacere immenso per chi legge? Se volevano negare la libertà dell’individuo, erano prossimi a questo scopo: ormai sapevo che sarebbe stato meglio per me, ma anche per chi mi stringeva la mano in quel momento, non opporre resistenza. Era giunto il momento di dire addio a quanto di più bello c’era stato in un certo periodo, seppur piccolo, della mia vita: avrei almeno fatto al mio libro un funerale carico di dignità.
Pensai alla dignità degli operai di Dickens: finché ci rimane la dignità, saremo sempre liberi. Diedi, così due monete al poliziotto che mi stava di fronte; sembrava imbarazzato, gli chiesi di buttarle nel fuoco assieme ai libri, se nutriva un minimo di rispetto nei miei confronti.
E così, compagno fedele, baricentro della mia felicità, te ne sei andato per sempre, ma almeno sei finito nel fuoco, con due monete, così come facevano gli antichi Greci ai più valorosi, per garantire la pace dell’anima.
Come un eroe, sei degno di librarti nell’aria.
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