Non dire mai che i sogni sono inutili
E io lo so che mi mancherà, anche se non riuscirò mai ad ammetterlo. Farò finta di niente, fingerò che questi mesi non mi siano passati dentro, fingerò di averli scordati o di non averli vissuti mai.
Il rumore dei tuoi passi - Valentina D’Urbano
Era ormai da mesi che facevo avanti e indietro dall’ospedale a casa, ma la cosa non mi pesava.
Giorno dopo giorno Dankan peggiorava: il suo viso diventava sempre più pallido e le occhiaie sembravano lividi sotto i suoi occhi neri, bellissimi. Dimagriva sempre più sotto quel pigiama nero che molto tempo prima gli avevo regalato per il suo diciottesimo compleanno.
Restava su quel lettino di ospedale senza muoversi mai, fissando il muro di fronte a lui con occhi spenti. Di tanto in tanto entrava qualche infermiera per controllare che non avesse ancora osato mettere fine alla sua esistenza.
Ma quel giorno, mentre mi dirigevo tra il traffico di Londra per andarlo a trovare, sentivo, in cuor mio, che c’era qualcosa che non andava, come una sensazione di malessere che ci accompagna dal nostro risveglio.
Le auto suonavano il clacson pronte a scattare ai semafori che diventavano verdi e la gente attraversava veloce le strade senza preoccuparsi di niente. C’era chi correva, chi pedalava, chi camminava con un telefono all’orecchio e chi, come me, stava seduta nell’abitacolo della sua auto aspettando di ripartire.
Come ogni mattina il mio telefono sceglieva dalla riproduzione casuale una canzone che rispecchiasse il mio umore, ma quest’ultimo non cambiava mai. Quella mattina, però, scelse How to save a life, la mia canzone preferita, e quella fu una ragione in più che fece aumentare il battito del mio cuore, preoccupato da qualcosa che ancora non sapeva.
«Where did I go wrong? I lost a friend. Somewhere along in the bitterness and I would have stayed up with you all night. Had I know how to save a life» continuava la canzone.
L’ansia aumentava, così premetti forte sull’acceleratore sorpassando tutte le auto. Decisi di prendere una scorciatoia che mi avrebbe fatta arrivare prima in ospedale, ma mi fermai non appena imbucai la via per la tranquillità del mio cuore. Mi sentii immediatamente stupida. Mi preoccupavo per qualcosa di cui non ero certa e cominciai a ridere per l’idiozia che avevo pensato.
Così con l’ansia che andava diminuendo, rimisi in moto l’auto e continuai il mio viaggio. Le canzoni cambiavano, ma avevo ancora le parole di quella canzone che pulsavano nella mia mente. Finalmente ero arrivata, parcheggiai nel primo posto libero che trovai e scesi dall’auto tranquillamente dirigendomi verso l’entrata.
Persone entravano e uscivano continuamente da quell’ospedale. C’era chi sorrideva varcando la soglia e chi piangendo usciva. Mi diressi verso gli ascensori affollati di gente al loro interno e altra ancora che aspettava il proprio turno, così presi le scale.
Con il fiato corto arrivai al secondo piano ridendo per il mio pessimo allenamento. Andai verso la stanza di Dankan, la 259, l’ultima a destra di quel lungo corridoio bianco.
Prima che potessi entrate il Dott. Williams, il medico che lo aveva preso in cura, mi fermò sulla soglia della porta.
– Ciao Gemma – disse.
– Salve signor Williams, qualche novità? – domandai.
– Veramente sì, ma non sarà piacevole – rispose cupo.
– Che succede? – chiesi mentre il cuore cominciava a battere sempre più velocemente. La voce quasi mi tremava e il volto dell’uomo che mi stava di fronte faceva pensare a qualcosa di terribile.
– Ho osservato le nuove analisi di Dankan. Il tumore si è espanso in tutti e due i polmoni e ho notato che il suo corpo non sarà in grado di vivere per più di una sett…
Non concluse la frase. Abbassò il capo e se ne andò lasciandomi sola a tenere a bada le mie emozioni che sembravano esplodere da un momento all’altro. Anche se non aveva concluso la frase, avevo capito ugualmente, purtroppo.
Entrai nella stanza dove, come al solito, c’era Dankan che guardava la città di Londra che la grande vetrata mostrava. A volte lo trovavo a fissare la parete di fronte al suo letto senza muoversi. Ascoltava la musica con gli auricolari nelle orecchie perso in chissà quali pensieri. “Come faccio a dirglielo?” pensai. Era difficile trovare un modo per dire ad una persona importante che sarebbe morta nel giro di una settimana, così decisi di non farlo.
Mi avvicinai cauta a lui e gli misi una mano sulla spalla che lo fece sobbalzare. Si tolse le cuffie e mi guardò sorridente. Sebbene non avessi detto niente il suo viso sembrava aver capito tutto, quel tutto che io non sarei mai stata in grado di dirgli. Il suo sorriso scomparve subito dal suo viso e i suoi occhi diventarono improvvisamente rossi come dopo un pianto, ma non scese neanche una lacrima.
Si rimise gli auricolari e tornò a osservare quella città che amava tanto e che avrebbe dovuto lasciare pochissimo tempo dopo. Non volevo disturbarlo, dargli fastidio, così mi sedetti sulla poltrona posta di fianco alla porta pronta ad aiutarlo nel caso avesse chiesto il mio aiuto.
Ricordai la prima volta che ci conoscemmo. Era passato ormai così tanto tempo che i ricordi sembravano appartenere a una vita lontana. Lui era così timido e impaurito all’idea che io potessi rifiutarlo per quel che aveva fatto e per la sua “malattia” che lo rendeva così diverso, ma così affascinante allo stesso tempo.
Gli tremavano le mani quando scoprii quel che aveva fatto a Matty, il figlio del Dott. Williams. Gli occhi gli diventarono inespressivi. Era terrorizzato, ma così dolce! Ricordai che lo abbracciai forte e lui senza esitazioni ricambiò stringendomi ancora di più.
Passammo questi sei mesi senza dividerci mai. A causa della sua psicosi, aveva giornate in cui non era in grado di vedere nessuno, ma a me permetteva sempre di stargli accanto. Era costantemente attento a non farmi del male, ma in cuor mio sapevo che non ne sarebbe mai stato capace. Non mi avrebbe mai sfiorato anche involontariamente se io non avessi voluto.
Ricordai il nostro primo bacio. Fu un caso, niente di programmato o voluto. Ci scontrammo e le nostre labbra si toccarono delicatamente per poi muoversi appassionatamente. Da quel giorno non smisi di addormentarmi la notte con il suo viso inciso negli occhi.
Mi ripresi dai miei pensieri che mi avevano tolto tempo prezioso da lui. Quel viso fra pochi giorni non l’avrei più visto.
“Come faccio senza lui?” pensai. Quegli occhi non li avrei mai scordati. Non lasciavano trasparire alcuna emozione ma con un semplice sguardo capii cos’era il dolore. Il dolore gli apparteneva, era dentro di lui. Lui era il dolore. Non lo faceva vivere come si meritava.
Guardava il soffitto su quel lettino di ospedale con occhi spenti come se aspettasse la sua ora. Le mani sul suo petto tremavano come la prima volta che mi aveva vista e probabilmente anche l’ultima.
Si girò di scatto su un fianco, verso di me. Le lacrime scorrevano sul suo viso e raggiungevano il freddo cuscino. I suoi grandi occhi neri mi fissavano. Chiedevano aiuto, quell’aiuto che per anni gli era stato negato. Il nostro sguardo era intenso, forte.
In quel momento capii che l’amavo, l’amavo davvero. Involontariamente le lacrime mi offuscarono la vista e avevo come la sensazione che la fine sarebbe arrivata presto, troppo presto. Mi alzai velocemente e lo raggiunsi.
Immediatamente le sue mani presero le mie e le strinsero con quella poca forza che gli era rimasta. Il suo viso esprimeva dolore e delicatamente si appoggiava alle mie mani. Le lacrime non accennavano a smettere come se all’istante avessero capito ogni cosa, la situazione.
I miei pensieri persistevano, si diramavano in tutte le possibilità per salvarlo, per tenerlo ancora un po’ con me, quando d’improvviso sentii le sue labbra premere sulle mie in un bacio intenso, che avrei fatto fatica a dimenticare.
– Ti amo – bisbigliò tenendo ancora ben salde le mie mani nelle sue.
– Ti amo anche io – risposi singhiozzando. – Non te ne andare – lo implorai tremante con un filo di voce.
Lui pianse, pianse forte. Piano chiuse gli occhi, per tutta la vita. La forza nelle sue mani diminuì lentamente mentre delle lacrime scendevano ancora dai suoi occhi tristi. Immediatamente mi allontanai da lui dirigendomi verso l’uscita, ma non osai varcare quella soglia.
Mi accasciai sul freddo pavimento appoggiata alla parete di fronte a lui. Le mie mani raggiunsero presto il cuore e la bocca come per poter tenere ancora tutto in piedi. Mi girava la testa, le palpebre erano pesanti. Stavo per svenire, lo sentivo. Avevo smesso anche io di vivere. Guardavo tremante il viso di quell’unica persona di cui mi interessava su questo dannatissimo mondo.
Nel sentire le mie urla accorse il Dott. Williams che solo osservandomi capì quel che era successo. Tre infermieri cercarono di portarmi via, ma senza successo. Così dovettero sollevarmi e allontanarmi da lui. Fu l’ultima volta che lo vidi e non fu abbastanza. Avrei voluto guardarlo ancora una volta per gustarmi la perfezione di quel viso che per mesi non mi aveva fatto chiudere occhio la notte.
Sulla sua tomba fu scritta una frase: «Non dire mai che i sogni sono inutili perché inutile è la vita di chi non sa sognare».
E lui, lui credeva di non saper sognare.
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