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17ª edizione - (2014)

Storie di un ordinario dolore - Sindrome di Stendhal.

Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi «sia finita» e mi voltai

L’inconsolabile – dai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, Einaudi 1947

Dopotutto, i rumori non esitavano a cessare. Le mattonelle fredde sotto di me, ormai non erano più un grosso problema, la mia pelle si stava abituando, diventando sempre più gelida. Morta.
Avevo disposto la griglia in verticale. Sette sarebbero state le colonne, cinque sarebbero state le righe e con un totale di trentacinque pasticche inghiottite una dopo l’altra, lenta e dolorosa sarebbe stata la mia morte.
Spesso mi domandavo: “perché ti fai questo?”.
Appoggiata a un muro sudicio di autogrill, privata di dignità e addolorata da un senso di autocommiserazione oltre oceanico, contavo i minuti che restavano.
Come le contrazioni.
Quando una donna avverte le prime contrazioni, inizia a tenere vicino a sé uno stupidissimo timer, o continua a guardare l’orologio. Le prime contrazioni distanziano di ore, fino a ridursi a minuti. Per dare una vita, o finirla.
La mia vita era finita lo stesso giorno che era iniziata.
Il diciassette ottobre di un venerdì che non avrebbe mai dovuto esserci, alle cinque del mattino.
Ah, e poi finì il diciotto marzo della quinta elementare, stesa su un letto di ospedale a iniziare la chemioterapia. I dottori mi avevano riscontrato la leucemia. Forse, finì un’altra volta, quando i due anni che seguirono, mi riscontrarono disturbi mentali come la schizofrenia e il bipolarismo.
Quando crebbi rinchiusa nel manicomio della mia città, che si trovava circa nei pressi di Bristol, capii che ero morta e rinata un sacco di volte. Non mi spaventava più la morte, la vita, o la morte e la vita insieme. L’unica cosa che davvero mi faceva tremare ancora le gambe, erano i ricordi di quelle tante vite, impregnate sulla mia pelle.
La prima pillola, verde speranza, scivolò giù nell’esofago lentamente. Iniziai a percepirne ogni minimo effetto: il tremore, la paura, la tachicardia.
“Oh Scarlett, vuoi davvero morire?”
Ingoiai la seconda pastiglia per necessità, e la terza per paura che la seconda potesse non farmi abbastanza male, poi decisi di iniziare a ricordare.

Tutti sapevano quanto l’arte fosse importante per me. Mi iscrissi all’Accademia delle Belle Arti dopo aver finito il liceo. Le lezioni erano pesanti, e una volta finite ero costretta subito a rientrare alla base, ovvero il manicomio. I miei genitori erano intolleranti di fronte alla parola “manicomio”, quando usciva l’argomento, mamma faceva finta di dover andare a stendere i panni, e mio padre invece continuava a leggere lo stesso periodico più di una volta. Ignoravano la questione come perfetti estranei, come se tutto questo non li riguardasse nemmeno un po’. Ero stufa di stare nell’ombra.
Certo, questo accadeva unicamente nei week end, quando mi era permesso di tornare a casa. Potevo vederli solo una volta al mese, e il motivo per cui ci andavo, era il bene che provavo per mio fratello Jace. Non era poi così straziante, nella cella d’isolamento, passavo tutti i giorni a scrivere, come se fosse stata l’unica cosa a farmi rimanere viva.
Ottobre era un mese particolare: in occasione del mio compleanno, la commissione sanitaria poteva avvalersi della decisione di farmi uscire per più di due giorni, anche all’estero, a patto che fossi stata accompagnata dai genitori. Quell’anno, avevamo deciso di andare a trovare zia Judith. La zia abitava a Firenze in Italia. Era una vecchia donna di alto ceto, vedova e con fin troppi vizi per mano. Aveva scelto di trasferirsi a Firenze, perché era un critico d’arte, e cosa c’era di più bello, che vivere in una delle città più ricche d’arte del mondo?
Così partimmo.
La mia finestra si affacciava su una delle piazze principali della città, lì tutto era diverso, a me sarebbe tanto piaciuto viverci in modo che potessi ogni giorno visitare qualcosa, la vita non era frenetica come in Inghilterra, e la gente era più comprensiva e molto più socievole.
– Allora Scarlett… come sta andando il primo anno? – mi domandò offrendomi una tazza di the.
Rifiutai, avevo lo stomaco chiuso, la sola necessità che avevo era uscire ed esplorare la meraviglia di cui mi circondavo.
– Bene zia Judith, com’è Firenze invece?
–Scarlett Gray, qui tutto è pace e arte. A proposito John, che ne dici se domani portiamo la bambina alla Galleria?– chiese rivolgendosi a mio padre.
Si alzò agilmente dalla poltrona e raggiunse una vecchia scrivania, tirò fuori dei dépliant e si avvicinò a me.
– Bambina mia, vieni con me domani
Sorrisi. I miei genitori si scambiarono un’occhiata e poi annuirono.
– Va bene, portala pure – commentarono.
Jace si lamentò per la fame e io mi aggregai a loro nonostante la fame mi fosse già passata da un pezzo. La cena durò due ore, vollero parlare di tutto, tranne di me ovviamente.
La sveglia suonò alle sette di mattina l’indomani, mi preparai velocemente e raggiunsi il salotto; come promesso Judith era già pronta per andare.
Morivo dalla voglia.
Nonostante fossimo nel bel mezzo della settimana lavorativa, i turisti provenienti da ogni parte del mondo non mancavano di certo, sempre pronti a immortalare ogni momento e a non perdersi qualunque attrattiva gli veniva proposta.
Partimmo dall’inizio, con i quadri che ritraevano l’arte contemporanea, fino ad arrivare alla stanza dei falsi d’autore.
Zia Judith s’allontanò per salutare una vecchia conoscenza, mentre io fissavo entusiasta quei quadri. In particolare, uno attirò la mia attenzione; apparteneva al romanticismo, dipinto da Francesco Hayez: Il bacio.
Quel quadro aveva qualcosa, e quel qualcosa era l’ispirazione che mi serviva per il test della settimana prossima. Avrei potuto proporlo, descrivendone ogni particolare, e ogni sensazione.
Ero così eccitata all’idea, che per un attimo mi sentii quasi svenire.
– Poche persone soffrono di questa sindrome, per una ragazza giovane come te, è insolito – una voce roca apparve dietro di me.
Sobbalzai per lo spavento, e mi girai di scatto. Un ragazzo se ne stava appoggiato contro al muro, notai fin da subito il portamento elegante, e l’abbigliamento discreto. Era alto, ma non troppo. Riccioli scuri gli incorniciavano il viso magrolino, e due iridi verdi spiccavano sopra la pelle color miele. Mi soffermai sulle sue mani, aveva le dita affusolate, ed erano fin troppo curate, l’intuito mi portava a pensare che fosse anche lui un critico d’arte o simili.
Era indubbiamente americano, avevo parenti di Seattle, e il loro accento era impossibile non notarlo fin da subito.
– Di che sindrome parli? – chiesi timidamente.
– Non ha importanza. Il bacio… bel quadro – commentò indicando l’opera d’arte dietro alle spalle.
Così iniziò un’interminabile discussione su quanto fossero belli i quadri, e quanta importanza abbiano per la storia del nostro paese. Mi disse che frequentava anche lui l’accademia, ma in Italia, e che viveva qui da quando era piccolo, poi aggiunse anche che suo padre era un ricco uomo d’affari appassionato di quadri appartenenti al periodo romantico.
Così mi invitò a casa sua per un caffè.
E io accettai fidandomi ciecamente. Avvisai zia Judith, che mi disse di fare attenzione e di tornare prima di pranzo, se mia mamma avesse saputo che stavo andando a casa di uno sconosciuto mi avrebbe sicuramente riportato in Inghilterra mettendomi sul primo volo disponibile.
Casa sua era grande, distava una decina di minuti dalla galleria, ed era arredata secondo gusti mondani. Mi mostrò ogni centimetro della villa, e poi ci sedemmo nel salotto.
– Hai già pensato a qualche quadro in particolare per il test di settimana prossima?
Mi morsi il labbro.
– Pensavo Il bacio. Devo descrivere l’emozione che provo guardandolo, ed è uno dei miei quadri preferiti.
– Ma non hai provato niente e così mi hai seguito per approfittarne? – mi domandò sarcastico.
Improvvisamente mi sentii le guance in fiamme. In effetti era proprio così, avevo approfittato della sua brillantezza e del suo sapere per i miei scopi lavorativi. Mi sentivo colta sul fatto e allora non potei fare altro che confessare.
Scoppiò a ridere.
– Vuoi che ti mostri una cosa? – mi chiese.
Annuii e lo segui verso la sua camera da letto.
La parete era piena zeppa di quadri, ovviamente erano imitazioni, e al centro della stanza c’era solo un letto con un piccolo comodino sulla destra. Sopra al letto, appeso al muro c’era un quadro che spiccava più di tutti gli altri, era incorniciato e in dimensioni originali: era un quadro di Karoly Lotz, Ragazza dopo il bagno.
– Ora penserai che…
– Non penso niente, la tua camera è impressionante, mi piace.
Mugugnò qualcosa.
– Sai perché ti ho portata qui?
Si sistemò la cravatta e fece un passo verso di me. Era terribilmente affascinante e così sommessamente spaventoso allo stesso tempo. Si tolse la cravatta e si sbottonò la camicia.
– Dunque, per prima cosa devi sapere che noi stessi siamo un’arte.
Mi sfiorò le guance andando a finire sui primi bottoni della mia camicia, li sbottonò con premura lasciando intravedere la mia pelle fantasma ricoperta da tatuaggi.
Carpe Diem? – esclamò. – Hai scritto sul corpo Carpe Diem? – e rise rumorosamente.
Ma non badai alle sue risate, non facevo altro che pensare alla situazione evidentemente pericolosa in cui mi trovavo, non sapevo quali erano le sue intenzioni, ma avrei dovuto immaginarmelo, mi chiesi perché ero stata così ingenua.
Solo che qualcosa scattò dentro di me. Mi sbottonai il resto della camicia. E anche lui fece lo stesso. Più vedevo il suo corpo privarsi delle vesti, e più la mia testa girava provocandomi nausea e vertigini.
Anche lui aveva dei tatuaggi, notai subito la geisha sull’anca destra, e un frase in latino dietro al collo, che a fatica riuscii a leggere.
Passarono istanti, imprecisi, e ci ritrovammo nudi entrambi davanti allo specchio, l’unico mobile oltre al letto e al comodino, presente nella stanza.
– Vedi, guardati Scarlett.
Stordita dalle sue parole, e dalla sua voce seducente, chiusi gli occhi e mi lasciai andare.
A un tratto, la mia mente viaggiava già nell’oblio delle fantasie più sfrenate. Sentii le sue mani accarezzarmi delicatamente il corpo. Esplorando ogni centimetro di me, e dopo, lasciandomi fare lo stesso con il suo.
Mi baciò il collo, e mi strinse dolcemente tra le sue braccia.
Non feci in tempo ad aprire gli occhi, e il mio corpo già giaceva sul pavimento freddo di quella stanza. Me stessa s’era lasciata dominare tanto da sentirsi male e cedere.
– Era questa la sindrome di cui ti parlavo, la sindrome di Stendhal.
Rimasi immobile, e lui si accasciò vicino a me, poi mi prese tra le braccia e accarezzandomi i lunghi capelli rossi, mi raccontò ogni cosa.
Si raccontava, che alcuni famosi artisti avessero avuto episodi simili in passato. La sindrome di Stendhal detta anche sindrome della città di Firenze, dove spesso si verificava, era il nome di un’affezione psicosomatica che provocava tachicardia, vertigini e confusione, in soggetti particolarmente sensibili messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza.
Facemmo l’amore sul pavimento.
Restammo a guardare il soffitto dipinto per ore.
E poi dovetti tornare alla realtà.
Non lo rividi più da quella volta, tornai in Inghilterra con il rimorso di non avergli neanche detto addio. Passai il test a pieni voti presentando il quadro che aveva appeso in camera sua e che mi aveva regalato una volta lasciata casa sua. Scrissi un sacco di menzogne. Non era per il quadro che ebbi il piacere di verificare che soffrivo anche di questa rara sindrome di Stendhal.

Si dice, che i ricordi esistono perché sono proprio loro a non voler essere dimenticati. E che ogni cosa succeda per colpa della parte di destino, che fin dalla nascita ci è stata donata. Riflettei questo ricordo continuando ad accumulare pastiglie dentro di me, con un dolore immisurabile nel petto. Forse i ricordi non muoiono mai. E io invece volevo accedesse, così come il mio corpo ancora vivo e giovane. “voglio morire” sussurrai prima di lasciarmi scivolare nel sonno immortale di Orfeo.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010