Pezzo dopo pezzo
Delfina aveva perso tanti pezzi nel corso della sua vita. Poco alla volta, senza nemmeno accorgersene, uno alla volta, ne aveva persi un sacco.
Da piccola Delfina era completa, era una persona completa. E i libri le parlavano, sempre.
Ogni giorno, con gli scricchiolìi delle copertine ormai consunte, con quel cullante fruscio delle pagine, con lʼinchiostro nero ammiccante dalle pagine ruvide, le parlavano. Le raccontavano di mondi lontani, di avventure incredibili e amori che superavano ogni limite, di eroi, principesse, draghi, tragedie e lieti fine. Lei ascoltava rapita, si perdeva nellʼimmaginazione e per ore rimaneva nel suo letto, sul divano o sdraiata sulle piastrelle dure e fredde della cucina; teneva in mano un libro, ma in realtà era il libro a tenere in mano il suo cuore, a custodirlo amorevolmente.
Poi a sei anni era arrivata la scuola e Delfina aveva perso un pezzo. Glielʼavevano portato via furtivamente le maestre che non la capivano, le maestre che al primo incontro con sua madre avevano detto: «Sa, signora, è una bambina con grandi potenzialità ma è troppo sognante, sempre persa in chissà quali pensieri, dovrebbe riportarla un poʼ più con i piedi per terra».
Ma insomma, si trattava comunque di un piccolo pezzo: Delfina poteva ancora tornare a casa, posare lo zaino in salotto e correre in camera, prendere in mano un libro e ricominciare a sognare, a veleggiare più lontano possibile da terra. Alla faccia loro!
Alle medie aveva perso un altro pezzo e, questa volta, aveva avvertito chiaramente il momento, il sonoro e impietoso craac: era successo in cortile, durante lʼintervallo, quando per la prima volta aveva visto le altre ragazze, in gruppo, osservarla dubbiose. Aveva messo via, in cartella, il libro che stava leggendo e si era avvicinata a loro. Di fronte ai loro sorrisi poco sinceri, alle loro chiacchiere vuote, alle loro risate frivole aveva capito di aver appena perso un pezzo ma era tardi, ormai, per tornare indietro.
A sedici anni, poi, aveva perso uno dei pezzi più grandi. Una sera aveva sentito le abituali urla dei suoi genitori, poi un silenzio inquietante, che le era parso subito presagio infausto.
Erano seguiti i tonfi di due porte sbattute, un rumore confuso proveniente dalla camera da letto. Prima che se ne potesse rendere conto suo padre era davanti a lei, una valigia in mano, una smorfia in volto. La guardò per qualche secondo, scrutò il libro che teneva in mano poi, senza che neanche un briciolo di tenerezza addolcisse lʼespressione amara e le sopracciglia aggrottate, disse: «Piantala con quella robaccia da leggere, forse sei ancora in tempo per non diventare una svampita come tua madre». Quella fu lʼultima volta che lo vide, le ultime parole che lui le rivolse.
Da quel momento sua madre, la sua dolcemente svampita madre, aveva iniziato a precipitare. Delfina non lʼaveva più vista aprire un libro, proprio lei che le aveva letto le prime fiabe ed era capace, prima, di non alzare lo sguardo da un libro per ore. Non solo: aveva trovato consolazione nel whiskey e nello scotch. Chissà, forse ora solo le bottiglie riuscivano a parlarle come un tempo faceva qualsiasi buon romanzo.
E così Delfina aveva perso un altro pezzo, insieme alla sua innocenza. Aveva iniziato a dividersi tra la scuola e i piccoli lavoretti necessari per riempire il frigo. Il pomeriggio ripetizioni ai bambini delle elementari, la sera cameriera nel pub di fronte a casa, di domenica babysitter. Con giornate così lunghe era sempre più difficile trovare il tempo per leggere.
Un giorno Delfina era entrata in camera di sua madre. Aveva trovato unʼombra pietosa della persona cui era stata abituata per tanto tempo: accasciata sul letto, i capelli aggrovigliati, sudata e in vestaglia, evidentemente brilla.
«Ma a cosa servono questi, cara?» le aveva chiesto improvvisamente, lo sguardo annebbiato puntato sugli scaffali di fronte al letto, una mano tremolante a indicare i molti volumi impilati. Delfina aveva scoperto di non sapere più cosa rispondere. Dʼaltronde, come avrebbe potuto?
Che servivano in effetti tutti quei libri in una casa tanto desolata, abitata da una donna costantemente ubriaca, e da unʼadolescente diventata donna troppo in fretta, privata del suo candore e della sua passione?
In quel momento Delfina perse lʼultimo pezzo, ormai inerte a tal punto da non sentirlo nemmeno.
Ora i libri le parlano ancora, o almeno ci provano. Si sbracciano dalla libreria dove giacciono abbandonati, polverosi. A volte urlano, oppure piangono, la chiamano a gran voce, come unʼamica perduta o semplicemente la pregano di tornare. Purtroppo però ogni sforzo è vano. Delfina ha perso talmente tanti pezzi che ormai è sorda a qualsiasi richiamo; si lascia trascinare dal monotono grigiore del suo dovere. Si occupa di sua madre e, nel tempo che rimane, di se stessa. Non sogna più grandi avventure, spera solo di arrivare al domani.
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