Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
11ª edizione - (2008)

Cristalli di parole (Liberamente contaminato dall'album Tutti morimmo a stento di Fabrizio De André)

Vestigio ancora non turbava l'immobile quiete della coperta bianca che avvolgeva nel proprio silenzio la Terra, vecchia e stanca. Un altro inverno si era insinuato cigolando e strisciando contro i colori, prima di assimilarli al proprio grigiore.
 Le catene, l'inverno, se le tirava dietro, pesanti, da sempre; da quando il primo mattino, a gomitate tra la nebbia, qualcuno si era aperto un varco fino alla pista di lancio del Sole, avviando un moto che nessuna forza aveva finora potuto fermare. Egoista, questo qualcuno: non aveva considerato le conseguenze del proprio gesto, ed ora ecco l'inverno trascinarsi svogliato entro un'orbita troppo definita, che ogni anno, inesorabilmente, lo portava nei pressi della Terra, dove aveva questi l'ingrato compito di avvelenare il calore per poter poi rallentare e riflettere – magra consolazione – facendo il conto delle proprie fatiche passate e presenti, per non voler pensare – con angoscia – a quelle future.
 La Terra non era scontenta di quest'interruzione. Giunto l'inverno gli passava dolcemente il testimone, sfiorava le labbra evanescenti di lui con le proprie voluttuose, e si coricava beata per un sonno senza interruzioni né sogni, avvolto in un silenzio spettrale e quasi fuori natura, di cui ella stessa, risvegliandosi, puntualmente si spaventava. Restavano ad affiorare da sotto la neve un effimero agglomerato di pietre incise da magre dita umane e un cipresso lanciato nell'utopica missione di solleticare con la propria punta i bassifondi del cielo.
 Il respiro quasi nascosto della Terra silenziosa si condensava sopra di essa in una nebbia che saliva a confondersi con la neve che puntualmente picchiettava e poi ricopriva i prati, sommergendo l'erba che strenuamente e pressoché inutilmente lottava contro il gelo. Tale foschia andava ad approvvigionare un certo qual mistero, una certa indefinitezza dell'ambiente e degli esseri circostanti, così che chiunque si muovesse su quello sfondo biancastro risultasse irrimediabilmente ombra.
 Con la Terra riposavano i campi, in attesa del disgelo che donasse loro nuove radici. La Morte, però, non dormiva: nel camposanto il vento principiava ogni giorno a erodere lapidi nuove ed ancora fiammanti, le uniche spighe il cui seme non smettesse mai di spargersi e proliferare, coprendo distanze inaspettate e penetrando anche negli ambienti più inattesi, anche nei prati, dove beffeggiando il gelo i bambini ancora giocavano.
 Non importava loro che i colori si fossero rintanati al caldo con le bestie da letargo; sapevano che prima o poi la bella stagione sarebbe tornata, e poi i colori loro li avevano, nascosti al riparo dalle menti ottuse della grande maggioranza dei loro vicini. Un altro mondo, tanti altri mondi quanti loro erano, e forse anche più, offrivano ai loro occhi un incredibile patrimonio cromatico che tanti grandi non avrebbero saputo vedere; ma di questo i grandi non sapevano neanche rattristarsi, soltanto chiudere la bocca ai propri figli con una risata di scherno e lasciare che essi in autonomia cogliessero da altre terre fiori improbabili.
 Nei camposanti la Morte e il vento giocano in fondo con gli uomini, povere pedine impotenti che inutilmente si affannano intorno a un pezzo di marmo, illusi che questo possa davvero cambiare qualcosa in ciò che è passato, ostacolare l'inesorabile avanzata dell'oblio, riabilitare la memoria di un parente che in vita è stato troppo ingiuriato e mal compreso. Basterebbe scrutare la propria anima e cercare in essa la strada perché il buio non sopraggiunga, ma della propria anima spesso l'uomo ha paura, e la fugge come ci si para gli occhi davanti a un problema, per non affrontarlo.
 Il gioco della Morte certo non finirà, anche i bambini capivano questo, e forse proprio perché lo capivano non si fecero troppi problemi a recarsi nel camposanto, una sera in cui trovarono che gli adulti avevano invaso tutto lo spazio circostante. Un fuoco li illuminava labilmente nel loro girotondo attorno alle lapidi, era il fuoco delle stelle, alte a osservare, troppo alte per distinguere contorni nitidi, alte così che le ombre che scorgevano ballare su questo povero nostro pianeta apparivano ai loro occhi prive di forma e di significato.
 In mezzo alle stelle troneggiava nel cielo la Luna, a crogiolarsi nel bagno di luce che il Sole come ogni notte gentilmente le offriva. Mentre al calduccio se ne stava ignara del freddo circostante, la Luna ricevette quella notte delle frasi spezzate da una voce infantile.
 Una bimba dagli occhi innocenti coglieva fiori nel camposanto in mezzo al cerchio d'ombra formato dai compagni, senza paura. Assaporando a grandi sorsate il profumo dei petali, narrava qualcosa alla Luna lontana, illusa che essa la potesse sentire, quando un uomo giunse e la prese, le ficcò le mani sotto il vestito, strappandolo, la avvolse nelle proprie braccia ricoperte di pesanti tessuti preziosi, e mentre ella lo guardava senza capire e come incantata ricoprì il suo esile corpo di baci, la sconvolse tutta, la fece propria.
 La luce della Luna si stemperò, corrotta dall'ombra dilagante che ancora avvolgeva i bambini in cerchio, i cui volti ora, illuminati diversamente, avevano assunto un aspetto lugubre e spaventoso, quale di teschi innaturali. Così li vide la bimba, smarrita in mezzo al cerchio, e continuò a lungo, urlando alla Luna, per favore, di ascoltarla, a roteare in giro e in alto i suoi occhi forse troppo belli.
Ho paura. Intorno tutti sembrano essere perfetti. Hanno la chiave, sanno, insegnano. La gente per strada. Le maestre. I miei compagni. La nonna. La mamma. Sono tutti integerrimi, senza fallo. Come posso dir loro che ho paura?
Non sono perfetti. Guardali con attenzione. Anche loro in fondo hanno paura, Alfredo.
È una guerra. Una guerra! Vogliono dominare il mondo. Pensano che sia loro. E lo è!  Alfredo urlò e pianse. Lo è! Oh, fratello com'è vero che lo è!
 Felice non seppe cosa rispondere. Era vero. Toccò il braccio di Alfredo “Calmati” gli disse, sentendosi terribilmente inadeguato alla situazione ”Non pensarci. Vivi la tua vita. Pensa ad altro”.
“Non posso!” gridò Alfredo. Felice lo sapeva. Neanche lui poteva, in verità. Non era la persona più adatta a consolare. Ma non poteva lasciare il fratellino in quelle condizioni.
“Aspetta. Ora ti sembra che sia tutto difficile. Impossibile. Ma prova ad aspettare. Troverai una soluzione. Arriverà da sola”.
“No! Alfredo piangeva e gridava, batteva le mani contro la parete, scalciava. “No! Anche se la soluzione arriverà, sarà sbagliata! Sarà troppo poco! Non c'è nulla che mi possa aiutare!”
Felice voleva mordersi le mani. Come poteva alleviare la pena del fratellino? “Ascolta” gli disse. “Quando è inverno e cade la neve e tu hai freddo, pensi che non smetterà mai. Ti figuri un inverno infinito e la neve che non smette mai di cadere. Ma la neve smette, un giorno. Piano piano, torna il sole e poi se ne va di nuovo e ricomincia a scendere la neve.”
 Alfredo era allo stremo delle forze. Rosso, ansimante, portava i segni della lotta con se stesso che lo stava estenuando. Il troppo piangere lo aveva preso allo stomaco; le visioni di quegli ultimi giorni gli avevano portato un peso eccessivo per i suoi quattro anni.
“Sono vuoto!” urlò ancora. “Capisci? Vuoto! Non ho nulla, non ho mai avuto nulla, non avrò nulla, striscio, striscio, c'è una luce, striscio, mi rotolo, striscio, c'è un calore, arranco, striscio, c'è un fuoco, striscio! Mia madre! La vedi, quando morirò, nostra madre? Oh, io la vedo sorridere, per celare il disagio che il mio ricordo le provoca! Ma che stia attenta! Oh, che stiano attenti tutti alla Morte, che non li sorprenda impietosi, che non li sorprenda come sono adesso! Come, come tutto questo è terribilmente difficile! Ma morirà infine il mio corpo, scadrà anche lui, povero idiota, e allora, sì, forse allora mi daranno un premio! Ma che finisca in fretta! Per Dio, che finisca in fretta! Perché anche morire dev'essere così complicato?”
 Ora Alfredo era per terra e batteva sul duro. La sua mente era altrove; i suoi occhi vagavano per la stanza, sulle pareti sporche e ruvide, sul letto sfatto, ma erano come gli occhi di vetro delle bambole, erano occhi di rappresentanza, non vedevano più nulla.
 Felice chiuse la porta della propria stanza, prese una penna e un foglio da musica e si sedette al pianoforte. Se ne alzò due ore dopo, stravolto. Sul pentagramma danzavano soltanto pause.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010