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17ª edizione - (2014)

Pronto, qui parla il dottor Breuer, desidera?

Erano appena le 14.05 quando, con aria furtiva feci irruzione nella buia stanza di mia mamma e afferrai quel libro abbandonato alla solitudine. Decisi che, prima di impossessarmi del bottino, dovevo assicurarmi che fosse soddisfacente e alla mia portata; così mi sedetti e cominciai a sfogliare le ingiallite pagine.
Mi piaceva. Mi piaceva la copertina, l’impaginazione, mi piaceva anche l’odore di quel libro. Ora bisognava solo assicurarsi che fosse un compagno di viaggio adatto a me. Cominciavo però ad avere freddo, decisi quindi di tenere in ostaggio la vittima e recarmi in un luogo più caldo. E quale luogo è meno caldo della mia profumata e accogliente cameretta?
Aprii la porta e un dolce calore mi abbracciò invogliandomi a entrare. Anche il letto era così gonfio e ordinato che mi chiamava. Beh io sono una persona educata, se qualcuno chiama non faccio mica aspettare. Così spostai leggermente le tende, per illuminare la stanza, e mi sedetti comodamente sul morbido letto.
Dalla finestra penetrava una luce pallida e di tanto in tanto in corridoio echeggiavano rumorosi passi elefanteschi accompagnati da lievi ululati. Mia sorella, la solita. Delicatezza pari a zero era stranamente tranquilla, si faceva i fatti suoi in salotto senza disturbarmi e ogni tanto esibiva le sue doti canore passeggiando allegramente per la casa controllando che fosse tutto in ordine. Ma ormai io non ci facevo più caso, ero completamente immersa nella lettura.
Si erano fatte le 15.
Improvvisamente sentii squillare il telefono: «Dottor Breuer! Dottor Breuer la prego sto malissimo, ho bisogno di parlare un po’ con lei» gridava una voce malinconica.
Non capivo: «Mi scusi, deve aver sbagliato numero, qui non c’è alcun dottore».
La voce si placò: «Ma sì, ma sì, me lo ha dato lei questo numero, non ricorda? Mi disse di chiamarla se avessi avuto bisogno».
Io non sapevo di cosa stesse parlando quell’uomo e gli chiesi così chi fosse.
«Nietzsche, Friedrich Nietzsche» rispose «Si ricorda di me dottore?».
Ero allibita e cominciavo a chiedermi cosa stesse realmente accadendo; alzai lo sguardo e vidi che in casa era tutto in ordine ma mia sorella non c’era e, fuori dalla finestra, stava piovendo.
«La prego mi ascolti Breuer, sto molto male e… ».
Lo interruppi io. «Signor Nietzsche le ripeto che sta parlando con la persona sbagliata, io non sono il Dottor Breuer».
Egli con un tono di voce rassegnata sussurrò: «Ma… ma proprio l’altro ieri, il 7 Dicembre se non mi sbaglio, sì il 7 Dicembre lei mi diede questo numero in caso di necessità e ora…».
Lo interruppi di nuovo. «Il 7 Dicembre? Guardi che si sbaglia, abbiamo festeggiato il capodanno appena 15 ore fa ».
Sentii una risata spiritosa. «Dottore, è sicuro di sentirsi bene? Oggi è il 9 Dicembre 1882».
Ero molto confusa. Gli chiesi un momento per farmi riflettere e gli diedi il mio numero di cellulare chiedendogli di scrivermi in chat. Poi misi giù la cornetta e in quel momento cominciò l’avventura.
Mi affacciai alla finestra e vidi che pioveva, notai anche che il luogo in cui mi trovavo era completamente sconosciuto per me, ma pensai che fosse soltanto la nebbia a rendermi le idee confuse.
Diedi un occhiata al cellulare, tredici messaggi, non pensai a chi potesse avermeli mandati e mentre trascinavo il dito sullo schermo per sbloccarlo mi accorsi della data: 9 Dicembre 1882 accompagnata dall’illuminato orologio analogico che segnava le 10.30.
Che strano. Nel frattempo i tredici messaggi erano diventati diciassette. Quando aprii la chat vidi diciassette messaggi dal contatto Professor Nietzsche.
Mi domandai come fosse stato possibile e intanto cominciai a chiacchierare con il professore. Mi disse che era in cura da me, che dovevo curare la sua malattia e che lui me ne sarebbe stato molto grato (quest’ultimo messaggio arrivò accompagnato da un simpatico cuoricino giallo che mi turbò parecchio). Mi chiese se mi andava di bere qualcosa e discutere del suo ultimo sintomo manifestatosi poche ore prima. Non so per quale ragione, non so con quale coraggio, acconsentii alla sua proposta.
L’appuntamento era al 7 di Backerstrasse, nome insolito per una via di Milano pensai io, ma lui mi scrisse che se avessi avuto difficoltà nel trovarlo avrei potuto servirmi della nuova applicazione di Google Maps (io preferii segnarmi il suo numero su un pezzetto di carta per accertarmi di arrivare sana e salva). Andai a prepararmi. Quando uscii di casa mi accorsi del vero problema, non mi trovavo a Milano, bensì nella fredda Vienna. Cominciai a disperarmi.
Pensai di chiedere informazioni a un anziano signore che con aria burbera mi disse: « Per di là» e mi fece cenno di proseguire verso una via illuminata da negozi. La strada era affollata di gente. Impiegati, donne, bambini, e i piccioni (quelli non mancano mai).

Quella era Backerstrasse! Diedi un’occhiata al numero civico ed ebbi un leggero calo di pressione quando mi accorsi di essere soltanto al 333. Dovevo arrivare al 7, come avrei fatto!? Notai che di tanto in tanto passavano carrozze dall’aria comoda e sontuosa (e costosa), e decisi di informarmi meglio su un possibile passaggio. Chiesi a una ragazza molto premurosa che mi disse di chiamare Fischmann, l’uomo al quale noleggiavo il fiacre tutto l’anno. Lo chiamai e arrivò rapidamente. In un attimo mi ritrovai al 7 di Backerstrasse.
Coraggiosamente mi misi a scorrere tutti i nomi sul lungo citofono e quando trovai F. Nietzsche provai un sollievo. Premetti delicatamente il pulsante e dopo pochi istanti riecco la calda voce dell’uomo del telefono echeggiare nella via: «Breuer? Sali pure!».
La sua affermazione entusiasta fu accompagnata da un particolare molto importante: «Terzo piano».
Salii. Mi accolse una porta semichiusa che bussai delicatamente. Quando aprii vidi un salotto tutto illuminato di luci soffuse, un tappeto persiano grandissimo ricopriva il pavimento di parquet ma nessun mobile o alcun oggetto arredava l’appartamento. Mi fece strada quella voce ormai da me tanto conosciuta, e attraversato un lungo e bianco corridoio trovai una porta anch’essa semichiusa.
«Venga avanti, la prego, venga senza timore dottore.»
Spinsi delicatamente la porta che emise un assordante cigolio.
Entrai in una stanza un po’ meno illuminata della precedente, sulle pareti vi erano solo mensole ricche di libri, al centro c’era una poltroncina in pelle vintage dall’aria assai comoda accompagnata da un simpatico tavolino rotondo che reggeva qualche volume. In un angolo della stanza, seduto a una scrivania in legno massello, stava il prestigioso Professor Nietzsche.
Mi avvicinai facendo qualche passo, il legno del parquet era parecchio rumoroso, e io tra tutta quella calma e quella pace cominciai a sentirmi inadeguata.
«Buonas…».
E stavolta a interrompermi fu il professore: «Salve dottore, ben arrivato, si tolga pure il cappotto e lo metta sull’appendiabiti che è alle mie spalle. Desidera un paio di pantofole? Un caffè?».
Mentre Nietzsche mi assaliva di domande con tono pacato, io stavo ancora tentando di sbottonare la giacca (che figuraccia!) e, una volta terminata la missione, rifiutai garbatamente le sue offerte.
Quindi lui mi porse un libro dicendomi: «Ecco, dia un occhiata a questo».
Umano, troppo umano. Che strano!
«Si sieda pure Breuer, faccia come se fosse… in un momento di pace, relax ».
Quella poltrona dall’aria tanto comoda era diventata angosciante, stare seduti al centro di una camera semi-illuminata, circondata da libri e volumi…
Maneggiavo delicatamente ciò che mi diede il professore, volevo assicurarmi di non sciupare un oggetto che non era di mia proprietà.
Umano, troppo umano.
Cominciai a sfogliarlo. Era composto da una prefazione, parte prima e parte seconda. Lo chiusi, alzai lo sguardo, Nietzsche mi fissava, ero imbarazzata quindi lo riaprii. Ero talmente confusa che non feci nemmeno caso all’autore.
«Che sbadata! Mi perdoni Herr Professor, l’ha scritto lei questo libro!»
Ammiravo molto Nietzsche ma feci una bruttissima figura a non accorgermi di quel dettaglio tanto rilevante.
Lui fece cenno di sì con il capo. Vi era silenzio, sentivo il suo respiro calmo riempire la stanza.
Vedendomi in panico, parlò: «Sa, i miei scritti sono definiti una scuola del sospetto, anzi del disprezzo, ma fortunatamente anche del coraggio, anzi dell’audacia».
Forse aspettava una mia parola, un mio cenno nel condividere le sue affermazioni, ma io lo guardavo impassibile.
«La mia guarigione deve passare attraverso la sua » disse.
Il tempo passava inesorabile e io cominciavo a sentirmi a disagio.
«Come mai mi ha voluta qui professore?»
Forse fui troppo fredda e diretta, ma era l’unico modo per capire cosa mi stesse accadendo.
«Te l’ho detto» rispose con aria compiaciuta.
Ed ecco che sul suo viso, sotto i mustacchi, si levò un rassicurante sorriso. Ora mi sentivo calma. Sembrava che egli mi conoscesse già da tempo. Decisi di confidarmi con lui, avrebbe potuto aiutarmi.
«Professore, mi sento sola.»
«Parla di amicizie o di amori?»
«In entrambi i casi la solitudine è presenza costante.» 
Ogni uomo ha le proprie paure, le proprie fobie, i propri desideri. Lui non sembrava affatto sorpreso, anzi, sembrava sapesse già tutto. Mi tranquillizzava molto il suo tono di voce caldo e profondo.
«Il rimedio?»
Onestamente aspettavo mi desse lui un rimedio, un qualche antidoto per placare la mia tristezza.
«Il rimedio? Beh la musica.»
Mi disse che era normale, tutto regolare secondo la sua opinione. Parlò a lungo. Io capii che la mia paura, il mio timore del giudizio degli altri era qualcosa di inutile, che avevo un bisogno cieco non solo di avere qualcuno da proteggere, ma di sentirmi protetta. Disse anche che la forza di un uomo sta nella coincidenza con se stesso, nell’accettazione di se stessi e nella volontà di vivere. Io riflettei. In effetti molto spesso abbiamo paura di non essere accettati, ma molto spesso siamo noi i primi a biasimarci. Accettare sé stessi è il primo passo per essere accettati. Parlando col professore capii che forse era per questo motivo che non riuscivo a farmi apprezzare da nessuno. Vidi il buio calare nella stanza, si era fatto tardi.
«La tua musica è un rifugio: apriti, fallo diventare dimora di molti, quello che fai è molto bello.»
Questa frase mi rassicurò molto. Io sapevo che egli apprezzava quel genere di musica, che aveva approfondito questo argomento e le sue conoscenze andavano oltre il sapere della musica. Era come se lo conoscessi dal principio. Forse conoscendo la storia dei musicisti attribuivo il suo influsso sulla musica a Nietzsche come se già avessi sentito parlare di lui. Eppure io avevo già sentito questo nome. Non ricordo. Forse era proprio lui, forse era l’uomo che attribuiva ai greci un antico e originario spirito dionisiaco? Mi allungò un altro volume, e questa volta feci bene attenzione all’autore: F. Nietzsche - La nascita della tragedia dallo spirito della musica.
Io non seppi se tacere o parlare, maneggiai quel libro sfogliandolo e assaporando la carezza delle dolci parole che mi scivolavano dentro. Ascoltai poi ciò che mi disse: «Ha sentito parlare della mia composizione per quattro mani che dedicai come dono natalizio a Cosima Wagner?».
Io alzai il capo incuriosita.
«Scrissi i Sylvesterklange, molto apprezzati dai coniugi Wagner, nonostante io paragoni Richard allo spirito dionisiaco.»
Domandai io: «Mi scusi ma, allora lo spirito apollineo in quale personaggio si può trovare?».
Era sorpreso: «Come?, come puoi tu non conoscere colui che rappresentò l’apice del classicismo, l’apollineo per eccezione!».
Allora capii: «Mozart, maestro!».
«Certo» rispose Nietzsche ritrovando in sé quella pace che tanto mi trasmetteva tranquillità.
«La vita senza la musica sarebbe un errore, ricordatelo sempre» disse.
Fuori vi era molto vento, e la finestra si aprì improvvisamente con un tonfo che mi fece sobbalzare.
«Lisaaaaaaaa! Lisa cosa fai? Dormi? Lisa! Lisa svegliati, c’è la mamma al telefono!»
Era mia sorella. Già potrei scrivere un libro, qualcosa del tipo “Mia sorella e l’eleganza nell’aprire le porte”.
Mi alzai barcollante dal letto. Quanto avevo dormito! Il calduccio della camera pian piano fu sovrastato dal gelo che entrava dalla porta.
Mia sorella non le chiude mai le porte. Che nervoso! Il secondo volume della mia saga avrà il titolo “Mia sorella e l’eleganza nell’aprire le porte, che per altro non chiude mai”.
Ma ciò che avevo fatto era un sogno? Cos’era accaduto? Mi spiaceva di non aver potuto salutare il maestro. Andai a rispondere, lo feci con aria alquanto carismatica e dissi: «Pronto, qui parla il dottor Breuer, desidera?».
La calda camera che avevo lasciato era ormai buia, il letto stropicciato, e su di esso un libro, un libro chiuso con un segnalibro, un pezzetto di carta su cui era annotato uno sconosciuto numero.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010