Cornici vuote
Umido cielo, pennellate larghe di bianchi sporchi che fluttuano sopra la mia testa, spasmi di colore che gocciolano ticchettando sopra al grigio dei palazzi.
Così ci inondi di tristezza e poesia, lo sai? Togli a tutti i tuoi sudditi un gran bel pezzo dello spettro cromatico, signora Volta Celeste.
Dico, mentre la pioggia inghiotte le pietre e l’asfalto, le spalma di umida luce. Cammino come presa da un senso di nostalgia e mi chiedo se non sia perché quei blu, azzurri, turchesi e celesti, insieme ai complementari rossi, gialli e ocra, siano stati burrascosamente rimpiazzati dal grigio chiaro. Magari la nostalgia tipica dei giorni di pioggia deriva dalla mancanza della normale tavolozza, quella brillante bellezza che passa indisturbata sotto ai nostri occhi quasi ogni giorno. D’altronde il colore non può deliziare contemporaneamente tutte le retine, no? Ora starà danzando da qualche parte intorno all’oceano, a inseguire le creste acquose, sulle punte tremule di un fuoco neonato, su farfalle dorate e fragili di carta velina, su qualche tela non più bianca.
Tela bianca. Ecco cos’è la pioggia. Un rito di preparazione alla porpora, all’oro, ai lapislazzuli che rivestiranno un qualsiasi paesaggio, una cancellatura prima di un sicuro tratto a china, un lavoro di restauro, una lacrima su un viso che sta per scoppiare in risa. La pioggia è inizio, quasi un battesimo, per un panorama: sciacqua via i colori di troppo prima che si ripopoli di nuovo, in un ciclo infinito di gocce e luce. Ho detto troppo?
E allora continuo a camminare, i piedi che si specchiano silenziosamente nel vetro liquido sotto e tutto intorno a me. Fradicia di pioggia, scivolo davanti all’ampia porta di un palazzo, fisso annoiata le decorazioni che la circondano e quelle delle successive porte, una dietro l’altra. Guardo come si proiettano sulle mattonelle di pietra e tremolano man mano che proseguo, la pioggia che continua a cadere, imperterrita. Finché, eccolo.
Seguire il suo profilo squadrato e severo mi lascia un sorriso sul volto mentre entro tra le sue larghe spire, quasi a passo di danza, e vengo invitata a proseguire fino al largo ingresso. C’è una coda di persone che aspetta il momento di pagare il biglietto in fila disordinata, scenario tipico per un museo: le imito finché, con una lentezza ineguagliata, arriva il mio turno.
Mio sorriso non ricambiato, costo del biglietto annunciato dell’impiegato, precisazione sul numero dei miei anni, modifica sul prezzo del biglietto, ticchettio di monetine e un’espressione soddisfatta, oltre che un pezzo di carta fra le mani. “Di qua” dice il mio istinto, guidato dalle frecce bianche e nere che indicano il percorso labirintico della mostra. Zampetto su un pavimento che rende sordi i miei passi, sordi come gli animi che vagano in pena per le sale spoglie: quei turisti e non, annidati dentro i loro piumini d’oca, che cercano di fissare un auricolare di plastica nel proprio orecchio. Per non distrarli dalla complicata manovra, scivolo tra le loro figure (che ormai staranno mettendo radici) e mi schiaccio alle pareti in cerca di tele.
Appare ora finalmente una lunga serie di bozzetti, prove, piccoli cartoni telati, appunti di una grafia intraducibile ai lati delle stanze, tutti accompagnati da un piccolo quadratino nero recante le specifiche dell’opera. Qui l’artista prova di tutto, ovviamente con qualche cancellatura, la mano un po’ tremula, giovane. Cornici neutre, sfondi bianchi e neri seguono l’ingenuità delle prime pennellate di una vita che sboccia, tele ingiallite sicuramente intrise di ricordi, vecchie date sbiadite. La successione si interrompe in prossimità di una porta spoglia e quasi vengo travolta dai visitatori muniti di audioguida: avranno finito di ascoltare la traccia riservata alla prima sala. Attraverso la soglia della seconda sala, più ampia della prima, e metto piede in un fascio di luce pallida proveniente da un’alta finestra.
C’è molta più gente, ora: guardo i guida-muniti stendersi l’uno sull’altro sopra a una sobria panchina nel centro del salone. La luce plumbea trema ovunque e rimbalza sulle cornici dorate, scivolando sulle tele dai colori vivaci e scomparendo nel bagliore vibrante delle luci al neon. I quadri, cinque grandi, sgargianti esemplari contornati da timidi studi a china, quasi si rubano la scena a vicenda sul loro grande palco. Non seguo un ordine preciso, anzi: quasi mi tocca saltare sulle spalle di qualche altro visitatore pur di intravedere appena un’opera, e quando si libera uno spazio davanti a uno dei cinque protagonisti, oh, ho la sensazione di aver vinto una piccola battaglia personale. Il mio sguardo si arrampica sui contorni, fermandosi appena sui particolari, mentre la mia mente legge prospettive e forme, ombre e rilievi, quasi naviga, quasi si impregna della stessa tinta fissata nella tela. Non leggo nemmeno un titolo, non serve, quello che la mente percepisce non c’entra con quello che conosciamo, è più profondo, più vivo.
Penso a questo mentre osservo le figure che, impedite dalla voce suadente di una guida elettronica nel loro apparato uditivo, guardano distanti le tele, sfiorandole appena con l’immaginazione. “Ma almeno sanno il titolo dell’opera, il tempo in cui stata eseguita, a chi è stata dedicata, la data di scadenza del latte che il pittore ha bevuto a colazione e altre cose utili.” Ghigno sarcasticamente e procedo verso le ultime due stanze, che sembrano essere così simili tra loro nel pallore del pomeriggio piovoso.
Mi tremano le ciglia davanti a quei lavori così diversi e simili allo stesso tempo, non più gioiosi, ma nemmeno troppo tristi: per quello che riesco a scorgere da dietro alcune decine di spalle, intravedo qualche grigio. Termino di girovagare per le due sale e finisco davanti all’ultimo, immenso, dipinto. Ecco, la grande somma di una vita, ecco cosa crea un’esistenza. Esco, ma non dimentico di girarmi verso l’ingresso della mostra, appena visibile attraverso la folla, e ripassare mentalmente ogni dettaglio che poco prima mi aveva sconvolto, o appena colpito, quasi inchinandomi, mentre sorrido.
Forse, uscendo, ho ringraziato l’artista che mi aveva riempito di nuovo gli occhi di colori, spazzando l’umido senso di nostalgia della pioggia.
Ma se dicessi che tutte, o quasi tutte quelle tele, erano bianche? Che forse non erano altro che superfici vuote da riempire con la vita di qualcuno? Magari di un bambino non ancora concepito, di un uomo, una donna, un ragazzo che non ho notato mentre camminavo sotto l’acqua? E se fossero mie? O se, pensa, fossero tue, lettore?
E quelle non erano tele, nemmeno quadri o bozzetti, ma ricordi vivi, felicità, sconforto, solitudine, entusiasmo, gioia, amore. Sono segni indelebili di una vita, o opere, come si vogliano chiamare.
Se stai leggendo questo ricorda che per capire una poesia, un quadro, un libro, una canzone, non serve una biografia; per comprendere non bisogna, o almeno, non basta, studiare. Milioni di ragazzi e ragazze come noi vivono, vissero e vivranno dipingendo tele, scrivendo storie, cantando emozioni, sperando che il mondo li veda per quello che rimane nelle loro opere, non per una data, un nome e un cognome.
L’arte, qualsiasi tipo di arte, vive per sempre negli occhi di chi sa osservare, immaginare, fantasticare, senza spiegazioni. Basta l’impressione di un osservatore per rendere un lavoro un’opera d’arte, trasformare un ammasso di macchie o parole in poesie, dipinti, libri. Evitiamo di rendere banale quello che ci circonda, bisogna tornare a credere alle emozioni e alle impressioni, osserviamo e stupiamoci di nuovo senza biografie e date che ci distraggano. Facciamolo per tutti gli artisti degni di questo nome, per tutti i Monet, i Kandinskij, i Giacomo Leopardi, tutte le Sofia che hanno vissuto, vivono e vivranno per l’arte.
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