Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
17ª edizione - (2014)

Quelli che vanno (Esperienza di lettura a partire dall’opera di U. Boccioni)
di Camilla Falsetti
Secondo premio

A cosa può servire un addio? Come può un abbraccio riempire il vuoto del tempo che passerà senza che quelle due persone si parlino o si guardino? Come si può pensare che un saluto della mano possa racchiudere tutte le cose che vorremo dire, tutti i momenti che abbiamo vissuto, tutto l’affetto che proviamo?
Gli addii non bastano mai. Sono la fine di un momento felice, l’ultimo incontro di due vite che s’intrecciano un’ultima volta per poi separarsi e prendere ciascuna la sua strada. Poniamo in quel vortice di abbracci le nostre speranze e tentiamo di lasciare fuori le nostre paure. Crediamo che con quell’abbraccio il tempo si possa fermare e la vita si dimentichi di andare avanti. Ma è solo il nodo tra due fili che poi si scioglieranno. Ci illudiamo ogni volta, poi un addio non ci basta mai.

Cettina pensava a tutto questo. Seduta sul treno, le mani intrecciate appoggiate sulle gambe tremavano. Sembrava rapita da qualcosa che accadeva fuori dal finestrino, ma le sue palpebre si chiudevano pesanti, a cadenza regolare, per riposare gli occhi stanchi dal vento sul traghetto. Non era triste, oppure era troppo agitata per accorgersene: aveva una voglia matta di irrompere nel suo futuro, sapere cosa la aspettava. Odiava non sapere.

Come sarebbe stara la casa? Chissà se il crocefisso della nonna sarebbe stato bene appeso in camera da letto. Fantasticava e disegnava quadretti immaginari su come sarebbe stata la via dove avrebbe abitato, gli alberi alti, magari dei tigli profumati, no, le avevano detto che c’erano le palme. Le sembrava di sentire già l’aria in faccia aprendo la finestra al mattino, dopo che i rumori della città l’avevano svegliata. Ma ogni nuovo dettaglio la riportava irrimediabilmente alla vecchia casa. Il caldo del sole che le accarezzava le braccia mentre camminava per le strade polverose. Il colore pieno delle arance che si mischiava al profumo dei limoni, al fruscio dei noccioli. Gli schizzi salati sulla bocca durante le gite in barca. La frescura umida della chiesa la domenica mattina. L’attesa in cucina del ritorno degli uomini. Il rumore del ruscello nel bosco dietro casa. L’odore del caffè dopo pranzo. Le chiacchiere delle donne sui balconi. I pettegolezzi, i baci, i gelati, le risate.

Il treno era partito.

Riccardo le si sedette di fronte, sembrava infastidito da una qualche discussione che aveva avuto con un passeggero. Cettina non volle prestarvi attenzione, era concentrata sui rumori di quel gigante di ferro, i rumori del suo futuro. Immaginava i suoi bambini correre e giocare in una città piena di macchine e industrie, piena di gente sempre di fretta, piena di fumi, piena di grigio. Di colpo si chiese se avesse fatto la scelta giusta. I suoi bambini non avrebbero potuto giocare sulle strade assolate di S. P. P., controllati dagli anziani della città. Non si sarebbero vestiti bene la domenica per la gita a M. e non avrebbero pregato i genitori ogni volta di comprargli un gelato. Si diede della stupida. Quei bambini ancora non esistevano e, dopotutto, la Capitale non poteva essere così male.

«A cosa pensi?»
«Non penso, stavo guardando fuori.»

Il sorriso dell’uomo che le sedeva di fronte la tranquillizzò, tutt’a un tratto si ricordò che in quella nuova vita non sarebbe stata sola.

«Parlami della casa.»
«Ancora?»
«Sì, per favore.»

Riccardo incominciò per l’ennesima volta a descriverle il piccolo appartamento. La carta da parati, i soffitti alti, la luce. I pensieri di Cettina vagavano insieme alle parole del marito, il suo sguardo la accarezzava, la coccolava. Una voce profonda, un po’ rauca ma rassicurante. Pensò a quando lo aveva conosciuto: l’uomo che veniva dalla Libia, l’uomo che aveva viaggiato, l’uomo dai mille racconti. L’aveva presa e l’aveva portata via. Era successo tutto molto in fretta, nemmeno il tempo di avere qualche dubbio, di farsi qualche domanda. Lo amava? Non lo sapeva. Probabilmente sì, ma era una domanda che le avevano insegnato a non porsi.

Decise di fare due passi. Il tremolio del treno le faceva perdere l’equilibrio e la cosa la divertiva, e in più c’era la mano di Riccardo pronta a sostenerla. Si fermò nel corridoio, di fianco alla finestra, e si aggrappò al corrimano in ottone. Il paesaggio si muoveva veloce e indistinto. Predominava il verde delle colline, le sembrava di sentire i fili d’erba scorrere tra le dita, appoggiò una mano sul vetro come per afferrarli. In lontananza c’era un paese, le tegole rosse si mischiavano ai tasselli del cielo, un po’ grigi, un po’ azzurri, un po’ blu, tutto sfrecciava. I colori si dividevano e poi si fondevano di nuovo, s’intrecciavano, s’allungavano. La velocità le piaceva, avrebbe voluto toccare tutto, sentire l’aria sui polpastrelli. Poi vide i piccoli occhietti stampati sul vetro, anche loro si fondevano con le case, le scrutavano da ancora più vicino, vi si intrufolavano, registravano i suoni, raccoglievano le storie.

Aveva un volto così piccolo, quasi da bambina, con la pelle olivastra e i capelli scuri. Lo sguardo era forte, attento, veloce, a volte un po’ duro. Vide che si stava mordendo un labbro, smise di farlo. Ebbe un brivido, come se di colpo si fosse accorta di dove fosse e cosa stesse accadendo. Quel piccolo gesto le aveva svelato quello che stava ignorando: aveva paura. Allora sentì gli occhi caldi e il naso punto dalle lacrime che si sforzava di trattenere. Allora il suo cuore iniziò a battere forte. Allora si ricordò che non era questo quello che aveva sognato. Ripensò a lei da piccina nel letto la notte, da grande sarebbe stata come sua madre, una brava donna di casa, attenta ai suoi bambini, amorevole verso il marito. Sarebbe stata un rifugio, il perno che avrebbe fatto ruotare la famiglia, perché avrebbe saputo sempre cosa fare e avrebbe sempre fatto la cosa giusta. Ma come avrebbe potuto farlo ora? Come avrebbe potuto farlo in una città che non era il suo paese, in una casa che non era la sua casa? In una famiglia che non era la sua famiglia! Come poteva quello sconosciuto diventare la sua famiglia? E chi sarebbero stati i suoi figli? Di che colore sarebbero stati gli occhi? E i capelli? Come poteva tutto questo diventare la sua famiglia? Lo sarebbe diventata, ne era certa. La doveva costruire. Era una giovane donna, non doveva fare altro che costruire la sua famiglia, e lo avrebbe fatto. Avrebbe imparato come fare. Strinse forte il corrimano. Voleva fuggire, voleva scendere da quel treno e andare lontano. Tornare nel bosco dietro casa, bagnare i piedi nel ruscello e poi schizzare con l’acqua gelida le sue sorelle. Sentiva le loro urla, sentiva il suo urlo. Era così forte, acuto, pieno. Era un urlo che urlava tanto. Un urlo che diventò la condensa del suo respiro sul freddo vetro della finestra. La fronte appoggiata a quel vetro, quasi volesse tuffarsi nelle belle colline che stavano attraversando, e un’unica lacrima, sottile e leggera.

Sentì la mano di Riccardo posarsi sulla sua, calda e grande. La stringeva al punto giusto: non tanto da farle male, non troppo poco perché potesse ancora tremare.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010