Quando il calore afoso diventa gelo
Il tassista li scarica all’angolo della strada. Farfuglia un paio di parole in un inglese con un forte accento straniero e gesticola rozzamente per fare capire che sono quasi arrivati al Taj Mahal.
Ma lui li deve lasciare qui, perché ha altro da fare.
Senza molti complimenti prende i soldi, intasca la mancia, e parte in sgommata.
Marco e suo padre sono rimasti sul bordo della strada polverosa. C’è caldo, un caldo afoso che fa ribollire il cemento. Il sole del primo pomeriggio batte sui muri collassanti e sulle strade sterrate; i testoni pelati degli uomini che bestemmiano per la strada brillano di sudore.
Suo padre è stanco, ma Marco non se ne accorge. Lui corre avanti e indietro per la strada che odora di pattume, guarda in alto sorridente, lui che dell’India pensava solo agli elefanti e ora ha scoperto essere un mondo diverso.
Suo padre lo richiama indietro molte volte.
«Devo andare in bagno», dice, e si infila sotto la porta di un bar con i vetri sporchi. «Aspettami qua», Marco lo guarda con uno sguardo perso, «e non ti muovere».
I muri sono crepati e pieni di ragnatele. Marco si gira verso il bancone, dove c’è una vecchia sdentata che sta a sfogliare una rivista svogliatamente. Come accorgendosi dello sguardo del bambino, alza la testa e la faccia le si inorridisce in un ghigno deforme.
Marco si spaventa; c’è una vecchia strega malefica che gli sorride, come quelle delle fiabe, e lui non vuole che faccia un incantesimo cattivo. Mette un piede fuori dalla porta, cade all’improvviso e si ribalta sull’asfalto incandescente.
Quando si rigira verso la vecchia la vede che sghignazza apertamente.
Allora corre fuori. Non si accorge del calore, il calore afoso che l’ha lentamente sopraffatto e che lo ha derubato del poco senso di logica che può avere un bambino di sei anni. Lui si ricorda della strega cattiva, e allora corre attraverso la piazza soffocante senza fermarsi. Percorre una via dopo l’altra senza tentare di ragionare. Solo quando si trova in un vicolo cieco, con uno squallido cancello davanti, si ferma per respirare e guardarsi intorno.
C’è un uomo un po’ matto che sputa sul marciapiede. Per il resto, la strada è deserta.
Marco guarda davanti a sé, attraverso il cancello fracassato. Ci sono dei bambini, vestiti con dei panni come quelli che usa la mamma per pulire i pavimenti, che stanno in riga. Sono sei bambini, sei come il numero dei suoi anni, e il sole brucia come una lama incandescente.
Uno dei bambini gira la testa leggermente per guardare Marco. Ma è solo per un attimo, perché poi, dai cumuli di spazzatura in terra, esce un signore in tuta blu con un sigaro in bocca, e i bambini si irrigidiscono. Il signore urla qualcosa e i bambini gli rispondono timidamente. Marco non capisce: è una lingua strana, sconosciuta, e più che parole sembrano un insieme di gorgoglii.
C’è un altro scambio veloce di battute, il sole batte forte e scottante.
Il bambino si gira ancora un attimo a guardarlo, poi parte il pugno dalla mano blu, che è fredda e insofferente contro il visino caldo che ora luccica di sangue. Al bambino scappa un grido, così al pugno segue un calcio e poi ancora dolore, che ferisce più del caldo che riempie fino a scoppiare. E Marco urla, urla perché vede che il bambino si accascia a terra, che il bambino sta male e che non respira, che gli altri bambini non provano neanche ad aiutarlo a rialzarsi ma se ne vanno come quei robot di Star Wars.
Ed è come un film quando il caldo diventa freddo, freddo come il sangue nelle vene di Marco mentre vede il sangue del bimbo che sbocca e che scotta sul terreno già bollente. E poi il bambino piange, con dei lacrimoni caldi e salati che gli rinfrescano il viso, che passano sopra il sangue bollente ma che non lo lavano via. Anche Marco piange, piange per il bambino che sta male, piange perché sa che ha bisogno del suo aiuto ma lui, quel cancellone d’acciaio, non sa proprio come aprirlo, e piange perché vede l’omone blu che l’ha visto e che gli si sta avvicinando minacciosamente.
Marco si gira verso il bambino, a malapena conscio, e lo guarda con due occhi che supplicano aiuto.
Il bambino muove le labbra rosse come il sole per bisbigliare una parola.
Gliel’avrebbe potuta dire in qualsiasi modo, in qualsiasi lingua, tanto Marco non l’avrebbe sentita. Ma questa l’ha capita bene, questa parola bisbigliata da un paio di labbra aride di sangue.
E sulla strada torrida e scottante, sul terreno che brucia, Marco corre.
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