103
Tic Tac, Tic Tac…
Luis Johnson non riusciva ad addormentarsi, continuava a contare i secondi scanditi dall’orologio sul suo comodino. Era arrivato a 3450… E la sveglia segnava solo le 4:12.
A tenerlo sveglio era il continuo pensiero di quello che sarebbe capitato il giorno dopo. In un certo senso, si può dire che Luis avrebbe cambiato casa, anche se non era esattamente così…
Dopo altre due ore passate a contare il tempo che scorreva, Luis decise di andare a vedere la TV, per cercare di farsi venire un po’ di sonno, ma quando si sedette sul divano e accese il televisore, apparve una schermata multicolore con la scritta: “Fine delle trasmissioni”.
Erano esattamente le 7:30, quando Luis chiuse per l’ultima volta la porta del suo appartamento al 45º piano di un grattacielo di New York. Aveva con sé una grossa valigia, che conteneva tutte le cose a lui più care: la foto della sua famiglia in vacanza, la penna porta fortuna, i due romanzi preferiti, il suo orologio, la piccola collezione di monete dei luoghi visitati e l’iPod dove aveva salvato tutta la musica, i film e le foto che preferiva.
Come al solito, da due anni a questa parte, una volta arrivato al piano terra, dovette infilarsi una fastidiosissima maschera che per Luis era una gran scocciatura, ma era necessaria se voleva sopravvivere per più di cinque minuti fuori dal palazzo.
Il ritrovo era alle 8:45. Doveva sbrigarsi oppure sarebbe rimasto lì da solo. Per fortuna la città era deserta, il grosso della popolazione era fuggita nei primi mesi, ma lui era stato costretto a rimanere, per dare una mano, dato che faceva parte della guardia nazionale. Raggiunta la sua auto nel parcheggio sotterraneo uscì in un viale di Midtown, e si può dire fosse uno dei pochi se non l’unico a vedere quella zona completamente deserta.
Guidava, guidava, guidava sempre più veloce. Doveva fare in fretta se non voleva finire l’ossigeno e morire asfissiato.
Alla fine arrivò al molo settantasette alle 8:35 proprio mentre gli addetti all’imbarco stavano per caricare gli ultimi bagagli dei passeggeri: ce l’aveva fatta, era salvo. Appena entrato nella sua cabina, una voce proveniente da un altoparlante annunciò che tutto l’equipaggio, sia il personale che i passeggeri come Luis, dovevano recarsi sul Ponte A per le fasi di decollo.
Il Ponte A era una vasta piazza con al centro una fontana di luce; per l’occasione centinaia di sedie erano apparse dalla superficie del pavimento e già una buona metà erano occupate da civili e dal personale di bordo: cuochi, camerieri, addetti alle pulizie, ecc.
Luis si sedette in terza fila, di fianco a una donna sulla sessantina, che continuava a parlare con chiunque ne avesse l’occasione. Luis non le diede troppo peso: era più preoccupato per quello che sarebbe successo di lì a pochi minuti. Sarebbero decollati, e questo significava volare, e lui odiava volare.
Gli ultimi ad arrivare furono i militari che erano andati a controllare che tutti fossero saliti sul ponte.
Poco dopo la nave accese i motori. Il grande muro di vetro panoramico che si trovarono davanti si chiuse avvolto da lastre d’acciaio, e su uno schermo sopra le loro teste apparve il countdown.
10… 9… 8… 7… 6… 5… 4… 3… 2… 1…
La nave schizzò verso il cielo spinta da una forza mostruosa che pressò tutti i passeggeri contro i sedili con una tale violenza che Luis credette che gli organi interni gli si spappolassero.
Gli sembrò che fossero passate diverse ore, mentre in realtà la nave era in volo da solo quattro minuti.
Uscita dall’atmosfera l’arca rallentò e il vetro panoramico si aprì rivelando un’immagine che gli riempì il cuore di lacrime.
La Terra, la loro casa era ormai un pianeta desolato, inabitabile, morto… Consumato dai vapori tossici rilasciati dalle costruzioni degli uomini e dalle continue estrazioni di minerali che avevano prosciugato il pianeta fino a farlo appassire, l’esosfera era completamente invasa da rifiuti spaziali e gli oceani erano un’indistinta macchia verdastra. La vista era insostenibile e Luis dovette distogliere lo sguardo. Da quel momento era cominciato il loro viaggio per raggiungere il resto della flotta. Avrebbero dovuto viaggiare per quattro settimane, quindi Luis pensò che sarebbe stato meglio visitare la nave, per vedere dove avrebbe vissuto per l’intero mese.
Il tredicesimo giorno di navigazione Luis sedeva come al solito in biblioteca, a leggere un vecchio libro che aveva trovato nella sezione fantasy. Era sprofondato nella lettura de Lo Hobbit da più o meno tre quarti d’ora, quando in tutta la nave risuonò un tremendo boato, quasi da far sanguinare le orecchie. La nave si incurvò bruscamente di lato, e Luis venne scaraventato contro la parete. Fu un miracolo non essere schiacciato da un scaffale rotolato a terra. Improvvisamente la gravità artificiale si disattivò e Luis cominciò a fluttuare leggero. Riuscì a uscire dalla stanza e saggiamente si diresse alle capsule di salvataggio. La nave doveva aver subito un danno ai motori perché stava precipitando. Molte persone erano state sbalzate fuori dalla nave quando la fiancata del Ponte D si era lacerata. Tutti i sopravvissuti si erano diretti alle capsule.
A Luis mancavano pochi metri per entrare nella scialuppa 103 quando, ripristinata la gravità, una trave si staccò dal soffitto e lo schiacciò. Lui gridava e si dimenava, ma le persone che passavano erano troppo spaventate per fermarsi a soccorrerlo. Credeva di essere ormai spacciato quando, tre figure in divisa militare alzarono la trave che lo schiacciava e lo portarono di peso dentro una capsula.
A questo punto svenne, e si risvegliò solo parecchie ore dopo.
Quando rinvenne la gamba destra gli faceva un gran male, ma i suoi salvatori, gli dissero che per fortuna non era rotta. I militari lo informarono che erano passate quasi dodici ore dall’incidente, e che avevano visto staccarsi dalla nave solo altre sei scialuppe, e tutte erano andate in direzioni diverse.
Luis chiese che cosa avrebbero fatto e loro gli risposero che sarebbero atterrati su un pianeta vicino, dove speravano di poter riparare la radiotrasmittente, danneggiata durante l’incidente.
Ci vollero altre quarantotto ore prima di raggiungere il pianeta indicato sulle mappe. A quanto pare nessuno era mai sceso su di esso e la sua atmosfera era sconosciuta. L’atterraggio non fu complicato e la capsula non subì molti danni.
Una volta toccato il suolo i quattro membri dell’equipaggio della scialuppa 103 fecero una scoperta incredibile: l’atmosfera del pianeta era simile a quella terrestre quindi ricca d’ossigeno!
Avrebbe potuto essere un nuovo inizio per il genere umano, una nuova casa. Tutti concordarono sul fatto che bisognasse informare il resto flotta e farla venire subito lì. Ma rimaneva il problema di come comunicare. Infatti, anche se avessero riparato la radio la sua portata era troppo debole per inviare un messaggio.
Nelle ore seguenti esplorarono la zona e cercarono delle provviste. Trovarono molti radici e frutti succulenti e commestibili, di cui solo un piccolo morso bastava per sfamare un uomo adulto.
Il sedicesimo giorno dall’atterraggio, il guardiamarina Malcolm stava facendo il suo turno di guardia, quando tutto a un tratto dal folto della giungla apparvero due individui che assomigliavano agli esseri umani; l’unica cosa in cui apparentemente differivano era la presenza di un sesto dito per mani e piedi. I due nella fattispecie erano alti e magri: uno aveva i capelli biondi, mentre l’altro color grigio chiaro, indossavano delle pellicce scure e folte, che al solo guardarle trasmettevano un senso di calore immenso. A tracolla portavano un arco e una faretra con diverse frecce dalla punta di colore bluastro.
Superato lo sconcerto iniziale, il tenente Milton prese l’iniziativa e cercò di stabilire un contatto. Fu molto difficile, visto che la coppia non conosceva nessuna lingua parlata sulla Terra. Il gruppo cercò di comunicare in diversi modi, e alla fine, terrestri e alieni, aiutati dal raccontare ognuno la propria storia, cominciarono a intendersi. Poi fu semplice. L’equipaggio della scialuppa 103 era curioso di sapere se c’erano altri terrestri sul loro pianeta o se ne avessero mai visti. Gli alieni risposero che non avevano mai visto degli Zarog con solo cinque dita.
Era così che amavano chiamarsi, Zarog. Quel nome risaliva a migliaia di anni orsono, e significava “Figli delle lacrime”. Infatti migliaia di anni fa sul pianeta viveva un Dio. Egrif era il suo nome. Egrif si sentiva molto solo, e voleva qualcuno con cui parlare, cacciare, ridere e giocare. Un giorno in cui era molto triste, pianse, pianse e pianse, per nove giorni. Alla fine le sue lacrime avevano riempito un intero lago, e miracolosamente, non appena ebbe versato l’ultima lacrima, dalla superficie si alzarono delle figure, tante figure per ogni lacrima versata. Queste creature si dispersero sul pianeta, ma nove rimasero con Egrif e gli fecero compagnia per nove secoli, finché il dio stanco e acciaccato dalla vecchiaia non si ritirò nella volta celeste, dove ancora oggi riposa beatamente.
Quando lo Zarog dai capelli grigio chiaro ebbe finito di raccontare la storia, l’uomo biondo chiese agli umani se non volevano andare con loro a pregare il dio al lago della creazione. Così, la compagnia partì e dopo tre giorni di cammino raggiunse il lago. A quella vista il loro stupore non ebbe limiti.
Il lago era una distesa sconfinata di una sostanza che non si sarebbero mai aspettati di trovare lì; perché sulla Terra non si trovava in natura, ma bisognava crearla artificialmente. Quella materia era plasma, ed era anche il combustibile delle navi spaziali.
Immediatamente il tenente e il guardiamarina si precipitarono a chiedere agli Zarog se potevano concedergli un po’ di plasma per poter far ripartire la loro nave e consentirgli di viaggiare per diversi mesi. In un primo momento furono restii, perché per loro quella sostanza era sacra, e non poteva essere toccata, ma poi a Luis venne l’idea di dare loro in cambio alcune delle più importanti conoscenze terrestri con le quali gli Zarog avrebbero potuto sviluppare la loro società. In cambio volevano solo qualche gallone di plasma. A quella proposta gli Zarog pensarono che l’amore del loro dio e il suo desiderio di vivere con gli altri doveva andare anche a favore degli uomini, quindi accettarono e gli consentirono di fondare una colonia terrestre sul loro pianeta.
Fecero scorta di plasma e riempirono il serbatoio della navetta, che altrimenti non avrebbe potuto fare più di qualche giorno di viaggio.
Dopo quasi due mesi di preparativi, i quattro uomini partirono e andarono dalla flotta a informarla dell’esistenza di quel meraviglioso pianeta. Dove l’umanità avrebbe potuto ricominciare.
Questa è la storia di quegli uomini a cui dobbiamo la vita e che ogni anno ricordiamo.
Grazie a quegli uomini oggi siamo qui riuniti per festeggiare i centocinquanta anni dalla fondazione della colonia 103 che prende il nome dall’omonima navetta.
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