Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
16ª edizione - (2013)

Non dimenticare

«Un Vodka Martini, per favore!».
Il ragazzo sollevò lo sguardo, inarcando le sopracciglia. «Subito signore» si affrettò a dire.
Prese tre parti di Gordon’s gin, una di vodka Smirnoff e mezza di vermouth Lillet Blanc. Li shakerò con ghiaccio.
Agitato, non mescolato gli aveva detto la prima volta e così aveva fatto da allora, e ci aggiunse una scorza di limone.
«Ecco a lei signore». Glielo lasciò sul tavolo, e si diresse dall’altro cliente.
A quell’ora del mattino il bar non era molto frequentato, se non dai soliti due o tre che trascorrevano la nottata tra un bicchiere e l’altro. Giona, il più affezionato, per dimenticare la moglie che lo aveva tradito col vicino di casa. Non se lo sarebbe mai immaginato. Un uomo per bene, con un lavoro che riusciva a mantenerli, senza alcuna difficoltà economica. Le aveva dato tutto: collane, anelli, fiori, poi una seconda casa al mare, una vacanza ai Caraibi, una in Africa… ma non le bastava. Lui la amava e lei voleva un altro. Ed era stato costretto a divorziare. Da due anni si recava lì, e ogni sera iniziava col ricordo quasi angelico di lei, e finiva con l’insultarla, sostenendo che avrebbe preferito morire mangiato dalla balena, piuttosto che per pene d’amore. Ora però era insolitamente zitto. Gli occhi arrossati, lo sguardo vuoto, rivolti a lui. Ogni volta che al bancone lui era presente, ammutoliva, intimorito dalla sua presenza.
Un uomo di trent’anni, alto, slanciato e muscoloso, che mai apriva bocca se non per chiedere da bere. Sempre vestito di scuro, con abiti scelti: pantaloni di tessuto nero, camicia nera senza cravatta, giacca nera. Non voleva farsi notare quando entrava, e nessuno lo vedeva quando usciva. Si sentiva solo la porta richiudersi, il barman vedeva il posto vuoto e Giona tornava a lagnarsi. Quella volta, però, era stato più cortese, aveva detto per favore e non era fuggito dopo il solito bicchiere, ne aveva chiesto un altro senza dare alcun segno di barcollamento. Reggeva bene l’alcol, ed era proprio questo a trattenerlo ancora in quel bar. Perché quella sera non voleva pensare, non che fosse un tipo riflessivo, ma non gli andava. Così sollevò il bicchiere appena riempito.
Cosa aveva fatto? Portò il bicchiere alla bocca. Deve aver ostacolato l’operazione del Capo… magari era al corrente di tutto e stava fornendo alcune informazioni alla polizia. Assaporò il gusto dolciastro del Martini. Ma cosa m’importa? Il Capo ha detto di farlo fuori, e io questo ho fatto… Deglutì.
In ogni caso, se lo sarà meritato. Si stupì solo a pensarlo. Non si era mai chiesto se fosse giusta o meno la sorte che il suo Capo aveva deciso di riservare a chi lo tradiva o era scomodo ai suoi piani. Non gli era concesso. Lui eseguiva e basta. Ed era così già da quasi vent’anni.
Distolse lo sguardo dal secondo bicchiere vuoto sentendosi osservato.
Giona gli sorrise. «Un altro?» gli chiese il giovane barista.
«No». Si alzò, guardò Giona impassibile congelandogli il sorriso, e uscì.
Il suono del campanello lo svegliò. Si diresse all’entrata in boxer, scavalcando i vestiti gettati a terra vicino le scarpe, e guardò dallo spioncino.
Era Oscàr, il suo autista. «Siamo in ritardo signore!» gli comunicò da dietro la porta.
Gli aprì. «Che ore sono Oscàr?».
«Mezzogiorno signore, e le ho portato caffè e tramezzino. So che le piace. Ovviamente l’ho saputo per caso, perché lei non dice nulla. Sembra quasi non abbia preferenze. Il che è impossibile, signore! Ho visto che bella ragazza è uscita l’altra mattina da casa sua. E, di certo, non si trovano ovunque di ragazz…».
«Oscàr!».
«Si?».
«Stai zitto».
«Oh, capisco. E sono d’accordo con lei! Neanche io lo direi in giro dove le trovo, meglio tenersele strette» e gli fece l’occhiolino.
Lui sospirò, era ancora intontito dalla serata precedente e dai suoi pensieri, che la vivacità del suo autista, appena sveglio, lo infastidiva. Oscàr, però, era uno così, libero di dire quello che pensava e di fare quello che meglio credeva. Trovava sempre qualcosa da dire, anche nei momenti di difficoltà, azzeccando le parole per farti sorridere. Ma di questo non aveva ancora avuto bisogno il suo padrone.
Soccorreva le vecchiettine per strada e, se poteva, cercava di mettere sotto i maleducati che attraversavano col rosso. Non si separava mai dalle sue magliette hawaiane, dal cappellino di paglia e portava sempre, contro ogni condizione climatica, i pantaloncini. Una volta sola il suo padrone lo aveva visto con quelli lunghi, ed era il funerale di sua madre.
«Le prendo la valigetta con… le sue cose?».
«No, oggi riposo. Il Capo mi vuole dare un nuovo incarico» rispose allacciandosi le scarpe.
«Bene».
Scesero le scale ed entrarono in macchina, una cinque porte nera, decapottabile.
«La vedo pensieroso signore» gli disse Oscàr. Ma lui non rispose. E dopo un po’: «Si sente bene?».
Lui si ridestò «Sì, sì!».
Ci stava ancora pensando. Il viso sorpreso e incredulo di quell’uomo che lo guardava mentre lui caricava la pistola col silenziatore e gliela puntava contro la testa. Non aveva cercato di difendersi con armi arrangiate, non aveva cercato di minacciarlo e nemmeno promesso qualcosa se gli avesse risparmiato la vita, vani tentativi che in genere sentiva pronunciare dalle labbra delle vittime del suo Capo. Quell’uomo gli aveva solo detto «Non dimenticare».
Giunti davanti alla casa del Capo, dove c’era anche il suo ufficio, corse all’entrata e, sistematosi velocemente, citofonò. Era in ritardo di qualche minuto. Il Capo non sopportava i ritardatari, fortuna era un caso.
«Chi è?» domandò la voce gracchiante della segretaria.
«Io» si sbrigò lui, e poté entrare.
Il Capo era seduto dietro la scrivania in rovere. Lo stava attendendo.
«Com’è andata ieri sera?».
«Come sempre».
«Cosa vorresti dire?».
«Che è andata bene».
«Bene. Ha cercato di difendersi o detto qualcosa?».
Gli venne in mente l’uomo e quello che gli aveva detto. Sapeva che avrebbe dovuto riferirgli tutto, anche il particolare più insignificante, perché poteva rivelarsi utile, ma non lo fece. «No. Perché? Lui chi era?».
Gli occhi del Capo si restrinsero impercettibilmente, sospetti. «Nessuno di troppo importante. Un giornalista che stava iniziando a interessarsi a un vecchio caso».
«Era sulla buona strada? Non potevamo fornirgli qualche falsa prova?».
«Che hai? È successo qualcosa che non mi hai detto?».
«Niente. Ti ho detto tutto. Vorrei solo che mi tenessi un po’ informato dei tuoi piani. Lavoriamo insieme da ventidue anni. E ancora non mi dici nulla».
Il Capo si accese un sigaro e fece un lungo tiro. Guardò attentamente fuori dalla finestra. L’altro, spazientito, si voltò per andarsene, vedendo che non reagiva. Per il nuovo incarico avrebbe potuto chiamarlo la sera. Ma lo bloccò, mano sulla maniglia, la voce da dietro la scrivania: «Aveva una moglie incinta. Ora ti ho detto tutto quello che dovevo. Non ti occorre sapere altro. Non starai iniziando a preoccuparti delle vittime? Sono io che decido, e in questo non puoi certo intervenire».
Lui non si voltò, ma disse: «Posso sempre non accettare di ucciderle».
«Ah! È cosi? Il tuo cuore insensibile si intenerisce per una donna e il suo bambino».
«Non ho detto questo».
«Ma è così! Cosa ti è successo? Quando ti ho raccolto dalla strada non cercavi che riparo e vendetta. Io ti ho soccorso trovandoti casa e insegnandoti quello che sai per combattere, vendicarti e non lasciare tracce di te. Non ti ho chiesto nulla in cambio, se non la tua fedeltà e la tua mano per agire».
Si zittì per un po’, fissando le sue spalle, poi disse «Vuoi forse tradirmi?».
In quel momento gli scorsero davanti agli occhi tutte le cose che aveva detto il Capo. Erano vere. E lui non poteva andarsene, non ora. E poi con quale motivo? Aveva solo avuto la presunzione di volerne sapere di più. Tutto qua. Gli aveva dato la sua parola quando aveva diciotto anni, e aveva intenzione di mantenerla.
Qualcosa, però, gli impediva di rispondergli «No! Non voglio tradirti!» con l’entusiasmo dovuto.
E questo qualcosa lo tormentava dalla sera prima. Non poteva nasconderlo, come non poteva tradirlo. Allora che fare?
«Qual è il prossimo incarico?».
Il Capo sorrise vincitore. «Via Rinaldi, 41. Domani notte, nel sonno».
Lui assentì, completò il giro della maniglia e uscì.
Ad attenderlo, appoggiato al cruscotto, c’era il fedele Oscàr. «Signore… ha una faccia!» disse come spaventato. «Un bel sorriso!» e gliene imitò uno, sfoggiando tutti i trentadue denti candidi, messi in risalto dalla carnagione mulatta.

Era trascorso un giorno, ed era già sera. Di lì a pochi minuti sarebbe arrivato Oscàr per portarlo nella casa segnalata dal Capo. Aveva dormito quasi tutto il tempo. Poteva dirsi riposato, ma su di lui gravava una stanchezza profonda. Inspiegabile. Solitamente prima di ogni azione disponeva le armi sul tavolo, ordinate per funzione, dalla più precisa a quella più spartana, ma mai gli capitava di usarle tutte, specialmente quest’ultima. Puntava sul sicuro. Una morte veloce per lo sfortunato, e più semplice per lui. La Walther P99. Ma richiedeva comunque una mira infallibile, che ovviamente aveva. Preferiva puntare al cuore o alla testa. Alle spalle era da vigliacchi, in altri parti procuravano solo dolore, ed era da perfidi. Lui doveva uccidere, non far soffrire, a questo ci pensa già la vita, si diceva ogni volta.
Così impugnò la pistola, la ripose nella giacca, chiuse casa e si fece trovare di sotto.
Quando Oscàr arrivò, si sentì stranamente sollevato, non era solo.
«Dove la porto signore?».
«Via Rinaldi, 41».
«Benissimo!». Sempre positivo. Come se stessero andando al cinema.
Pregò che Oscàr non facesse domande, piuttosto che si rispondesse da solo. Non avrebbe saputo che dire per non destare sospetto, anche se sapeva di contare su di lui. Gli era ancora incomprensibile la situazione dell’altra sera e del giorno prima. «Non dimenticare». Ma cosa? Cosa non devo dimenticare? Te? Nemmeno lo conoscevo… C’entra forse il Capo? Ma nessuno poteva rispondergli.
Intanto il giovane autista aveva messo una canzone dal ritmo movimentato, e la cantava sculettando dal posto e mordendosi ogni tanto il labbro inferiore. «Ehi capo! Non mi guardi così! Non la conosce?». Lo guardò dallo specchietto retrovisore con occhi sgranati. Lui fece cenno di no con la testa. «Bè! Neanch’io». E rise.
«Siamo arrivati». Scese, e andò ad aprirgli la portiera. «Buon lavoro». Lo guardava negli occhi. Aveva stima del suo padrone, e aveva imparato a volergli bene, dopo tutti questi anni. Anni in cui lui gli aveva riservato solo poche parole, e ancor meno attenzioni.
«Grazie» gli disse sincero. Si allontanò.
«La vengo a prendere quando mi squilla. Come al solito» disse Oscàr, e la macchina partì.
37… 39… 41. Era una casetta semplice con giardino. Guardò a una finestra. La sala era spaziosa e qualcuno si trovava in una stanza a fianco. Probabilmente era la prossima vittima. Doveva già essere a letto. Che faccio? E poi non so se è solo o no. Cercò di sollevare l’anta della finestra. Era primavera, e l’aveva lasciata socchiusa. Così entrò, silenzioso e agile. A passi altrettanto silenziosi si recò verso la stanza illuminata, già armato perché voleva finire presto, voleva digitare il numero di Oscàr, e tornarsene a casa. Non gli andava di uccidere. “Prima inizia, prima finisce” direbbe Oscàr. Dunque entrò. Nessuno. Una cucina, vuota. Si girò attorno per guardare meglio, anche dietro la porta, ma non la vide, finché la sua ombra non si schiarì alla luce della lampadina. Era una signora anziana, molto anziana, con un bastone davanti a sé che la guidava. Era cieca e non poteva averlo visto, ma si fermò, in ascolto. Sulle prime non seppe che fare. Una nonna? Si tratta di un torto passato… Poi le posò la pistola sulla nuca.
«Non si muova».
Lei inspirò bruscamente, sorpresa. È facilissimo. Come sempre, basta premere il grilletto.
«Che fai ragazzo?».
Sto per ucciderti, nonna!
«Cosa?».
«Non ho detto nulla!».
«Dimmi caro. Perché vuoi uccidermi?».
«Zitta! Non è mio dovere saperlo né dirtelo. Quindi finiamola qui».
Lei si voltò verso la voce. «Va bene…» disse sorridendo tristemente, rassegnata. «Ma non buttare così la tua vita».
Buttare? Sei tu che stai per morire. Buttare. Ma che è? Mi sente?
«Allora? Hai detto di fare in fretta».
Fu la tentazione di un momento e non riuscì a resisterle. «Cos’ha fatto lei al Capo?».
«Al Capo? Oh… dovevo immaginarmelo» e abbassò gli occhi vitrei. «Ragazzo, la vita è strana. Io al tuo Capo non ho fatto nulla, se non cercare di aiutarlo».
«Cosa… ?» sbottò lui, per la prima volta, «cosa gli ha fatto?».
«Amato, l’ho amato. E cercato di crescere, al meglio che potevo».
Lei è la madre… la guardò incredulo. Non poteva essere. Cosa gli aveva chiesto. Di uccidergli la madre? Perché?
«Lei mente!».
«Caro, purtroppo c’è chi non sa arrendersi all’amore. Vuole essergli più forte, insensibile».
Il tuo cuore insensibile si intenerisce per una donna e il suo bambino gli aveva detto il Capo. Lui non ama? È insensibile? E mi ha addestrato…
«Ma tu puoi non fare il suo stesso errore. Puoi scegliere».
«Non è vero! Ho già ucciso per lui. Non posso! Gli ho fatto una promessa tanto tempo fa…».
Gli tremava la mano con la pistola.
«Tesoro, le promesse sono sacre, ma se fatte a un matto, che porta tutti alla morte, compreso te, non possono essere promesse. Solo morte certa. Sei ancora in tempo».
«Ah sì? E tutti i morti? Tutte le persone che ho ucciso sono ancora in tempo?».
«Tu lo sei. Loro purtroppo no».
Come posso cambiare? Sulle mani ho il loro sangue. Non posso dimenticarle e fingermi un uomo diverso. Io non posso scegliere. Gli ho fatto una promessa.
Impugnò la pistola con entrambe le mani e tese le braccia, ansimando perché non capiva. Non aveva più la situazione sotto controllo. Non sapeva più se farlo. Non era giusto… Forse voleva veramente cambiare, ma come dimenticare il passato, inevitabilmente legato al presente, al futuro?
«Non farlo» le disse la vecchietta, questa volta capace di guardarlo negli occhi. «Non sei un uomo cattivo. Puoi ancora cambiare».
Lui chiuse gli occhi. Gli stava per scoppiare la testa. Un turbinio di pensieri gliela riempì; c’erano ricordi, persone, il volto di Oscàr che avrebbe rivisto e il volto di sua madre. Non avrebbe mai voluto che morisse così.
Aumentò di poco la pressione dell’indice destro, e sparò.

Cinque anni dopo.
«Padrone, le ho portato caffè e tramezzino. So che la fa impazzire».
«Oscàr. Sai che non voglio mi chiami più padrone, e, comunque, non mi è mai piaciuto il tramezzino col caffè».
«Lo sapevo!» esclamò non tanto convinto. «E come la chiamo?».
«Sai… anch’io ho un nome: Pietro».
«Bel nome padrone! Chiamerò anch’io mio figlio così. Prima, però, deve finire la storia che aveva iniziato a raccontarmi l’altra sera. Tra l’altro non ho ancora capito perché non me ne abbia mai parlato. Comunque, la vecchietta, è morta o no?».
«No» sorrise. «Non potevo ucciderla. Non era giusto. Così ti ho squillato e sei venuto a prendermi».
«Ah già… c’ero anch’io. Sì però, il tuo vecchio Capo non è stupido. Noi ce ne siamo andati. Ha voluto ricominciare. E ha voluto guidare lei! Ne sono stato felice. Ma la vecchietta, sua madre?».
«Abbiamo pensato io e lei a una soluzione. Ora zitto e portami al mio bar, che devo salutare e consolare un vecchio amico. Se lo trovo ancora…» pensò sorridendo. Non se la sentiva di dirgli tutto quello che era accaduto. Che in realtà l’aveva mancata. E per fortuna, perché è stato grazie a lei che lui ha saputo ricominciare. Ha imparato che c’è sempre una scelta, e che allo stesso tempo il passato non va dimenticato. Forse era quello che intendeva l’uomo, o forse no. In ogni caso, ora era diventato il punto da cui ripartire per migliorare, vivere il suo presente, e costruirsi il futuro.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010