Racconto
Anja correva, disperata.
Gli occhi erano gonfi di lacrime, il sorriso quasi assente.
Tutto sembrava essere svanito.
Le risate, la tranquillità, i suoi modi pacati.
Tutto sembrava essere disperso, polverizzato, perso tra i mille e mille fumi della vita, attanagliato tra pensieri oscurati dalla rabbia, bruciato tra le sue fiamme.
Sentiva solo quell’istinto di seguire il suo corpo, di non badare ai suoi movimenti, basta.
Corri. Questo sembrava sussurrarle. Corri, corri, continua a correre.
E così fece, sfrecciando tra corridoi, porte aperte, silenzio rotto solo dal suo sferzare lo spazio che la circondava, che non si opponeva, che non creava attrito.
Perfino lo spazio, perfino il risultato di una formula matematica ipotetica e completamente astratta sembrava comprenderla, sembrava provare empatia. Un’essenza impercettibile può provare empatia? Delirava, delirava completamente, continuando a correre.
Finché si fermò.
Il cuore batteva colpi assordanti, che dal suo petto si diramavano in ogni dove, nelle orecchie lo udiva nitido, rimbombante, un ritmo scandito dal passo di un esercito senza paura pronto a marciare contro il nemico.
Come se esistesse, un esercito senza paura.
Il fiato era rapido e doloroso, qualcosa dentro di lei voleva farle pagare caro lo sforzo, i polmoni chiedevano aria, ma questa era diventata di colpo egocentrica e preziosa, entrava controvoglia, graffiandole la gola.
Dov’era? Perché l’aveva fatto?
La vista era annebbiata, la mente confusa, le palpebre abbassate in segno di rispetto alla vista, che non voleva sprecare i suoi ingegni invano.
Cammina. Il suo emisfero destro sembrava ridestato, le sussurrava qualcosa che le sembrava quasi razionale, in quello stato di semi incoscienza.
L’aveva sentito, da qualche parte.
Dopo uno sforzo di lunga durata, è bene non cessare improvvisamente la prestazione fisica, ma diminuirla e diluirla fino a raggiungere nuovamente il naturale controllo delle funzioni cardio respiratorie.
Quante cose sì è convinti di aver rimosso, invece tutta la nostra vita, le nostre esperienze e il nostro sapere accumulato sono semplicemente riposti ordinatamente in un cassetto, in un archivio, senza rendercene minimamente conto. A chi poi, dovrebbe rendere conto il nostro inconscio? Al singolo decimo della psiche razionale?
Anja sorrise, per la prima volta dopo quello che le pareva un tempo interminabile, camminando lentamente, gli occhi ancora chiusi, le mani poggiate delicatamente sui fianchi.
Muoveva un passo dopo l’altro ascoltando assorta il ronzio del silenzio, che silenzio fino in fondo non può fisicamente essere.
Si concentrava sul battito del suo cuore, sul riempirsi e svuotarsi rapido dei suoi polmoni, sui muscoli tesi e caldi che si stiravano e si rilasciavano ritmicamente.
Camminava in tondo, senza la voglia di sollevare le palpebre, poi deviò, diritta, e per poco non cadde.
Aprì gli occhi di riflesso e si ritrovò a osservare degli altri occhi verdastri, davanti a lei, con uno sguardo lievemente intontito.
Cominciò a rimirare incantata i lineamenti dolci di un volto rotondo, di due occhi grandi e ben delineati, un naso dritto e lievemente arrotondato, pochi centimetri sopra due labbra rosee, stirate in un mezzo sorriso.
Rimase in quella posizione per un attimo che le parve un’eternità, scrutando quella figura illuminata dal sole mattutino, come se non l’avesse mai vista, o mai vista veramente.
Anzi, per dirla tutta non collegò subito quella figura a se stessa, e le ci vollero dieci secondi buoni per rendersi conto in che strana stanza era finita.
Vi erano specchi ovunque, di tutte le dimensioni, contornati da tutti gli ornamenti possibili.
Uno grande e sostenuto da ferro scuro, un altro ovale e circondato da rose rampicanti, un altro ancora adornato di ricami dorati sui bordi.
Ruotò su se stessa, incantata da quella magica stanza e si trovò di fronte a un nuovo specchio, questa volta grande e massiccio, scolpito in una grande pietra ad arco.
Si avvicinò, attirata da quel misto di antico e mistico, ma soprattutto da una scritta sghemba sopra il profilo superiore e irregolare: Qui es?
“Latino” pensò, con una vistosa smorfia.
«Chi sei?», tradusse automaticamente a voce alta, quasi senza rendersene conto.
Lo ripeté. Di nuovo. Ancora una volta.
Abbassò gli occhi, per poi puntarli nuovamente nei suoi, ritrovandoli gonfi di lacrime.
«Chi sono?» mormorò.
Le gambe cedettero di colpo e si ritrovò accovacciata su se stessa, una guancia rigata da una lacrima calda, che si faceva strada tra le lentiggini.
Tutto era calmo e silenzioso, eppure nella sua testa quelle parole rimbombavano, potenti, come gridate disperatamente in una vallata deserta, dove nessuno poteva sentirle, tranne se stessa.
Risollevò il mento verso lo specchio, bene attenta a non perdersi nuovamente nel suo sguardo, e rilesse la scritta.
Qui eras?
Si bloccò, incredula, risollevandosi.
Da dove diavolo era uscito quell’eras? Era sicura, assolutamente sicura di aver letto una frase diversa.
Qui es. Facile da tradurre, dopo la maxi verifica dei verbi della mattina precedente.
Chi sei. L’aveva ripetuto fino a un millesimo di secondo prima.
Corrucciò la fronte, odiava non avere ragione, era più forte di lei.
Chi eri? tradusse nuovamente, rileggendo tre volte per scrupolo.
Avvertì un sibilo, lontano, poi sempre più forte, sempre più vicino.
Tutto a un tratto si trovò immobilizzata, avvolta da un risucchio proveniente dal suo petto.
Cercò di muoversi, contorcersi, urlò, senza produrre alcun suono.
Cosa diavolo stava succedendo?!
Si trovò di nuovo immersa nei suoi occhi, d’un tratto ingranditi davanti a lei.
Si dimenò ancora e ancora, ma qualcosa le impediva di muoversi e la costringeva a guardare dritta davanti a sé, quel verde muschiato delle sue iridi.
Cominciò a vedere immagini su immagini, dalle più astratte alle più improbabili, un incrocio di strade segnate da cartelli con punti interrogativi, una porta chiusa sigillata da un cartello che recitava Domani, poi altre immagini, più vivide, più nitide, che riconobbe: ricordi.
Una bambina dai capelli scuri rannicchiata in un angolo immersa in un gigantesco libro; una folla di bambini sorridenti e la stessa bambina lontana, nascosta; un corridoio semibuio e tre ragazze che ridacchiavano alle spalle di un’altra ragazza davanti a loro, dai capelli scuri e dal viso così simile al suo… Anja cominciò a piangere e a dare calci al nulla, non voleva andare avanti, non voleva continuare.
Non voleva seguitare a guardarsi crogiolare nella solitudine, nascosta, timida e indifesa.
Non voleva, faceva male.
Troppo male.
Aveva vissuto quindici anni della sua vita in balìa di quelle sensazioni aspre, quel continuo disagio, quella voglia di scomparire nel nulla.
Non voleva andare avanti, non voleva andare oltre.
Non poteva permetterlo. Non questa volta.
Allora, così come era improvvisamente cominciato, tutto si fermò.
Si ritrovò ancora una volta al centro di quella camera, davanti a quel maledetto specchio.
Tutto era sparito, le sue iridi erano tornate alle loro dimensioni e adesso la scrutavano, dubbiose.
Si avvicinò, aveva compreso.
Non ebbe bisogno di alzare lo sguardo, per sussurrare «Qui eris?», che sarai.
Allungò un indice verso lo specchio e indicò un punto al centro della sua figura, a sinistra, sul suo petto.
Cominciò a udire un nuovo suono.
Ma non era un sibilo, questa volta. Era una melodia.
Una melodia dolce, che cominciò a riempire la stanza, ogni varco, ogni nicchia nel muro.
La riconobbe e chiudendo gli occhi si lasciò cullare.
…E quando pensi che sia finita
È proprio allora che comincia la salita
Che fantastica storia è la vita…
Sorrise.
Si fece per guardare allo specchio nuovamente, ma tutto era scomparso.
Non un riflesso, non una scheggia di vetro infranto.
Tutto era pace, tutto era tranquillità.
Avvertì un immediato calore sulla pelle, e si trovò inondata di luce.
Vide se stessa adulta camminare ridendo su una strada di campagna, mano nella mano con un uomo alto, sorridente, che la guardava di sottecchi, affascinato.
Si rivide poi davanti a una fila di signori distinti, emozionata, allungare una mano e stringerla a un’altra, avvolta in una toga nera, circondata da applausi.
E nuovamente si guardò seduta a una scrivania, intenta a parlare con una donna, con un gran sorriso, dopo aver udito la parola «Assunta, congratulazioni».
E infine poté scrutarsi davanti a una spiaggia, con gli angoli della bocca sollevati, davanti a un bimbo dagli occhi verdi, che giocava assorto con una paletta stretta in un’adorabile manina.
Aveva capito.
Non importava chi era stata, non importava quanto avesse sofferto, non importava quanto non aveva fatto per risollevarsi dopo ogni caduta, in passato.
Non importava che guardandosi allo specchio non riusciva a vedere un sogno, o una meta certa da voler raggiungere.
Non importava sapere a cosa sarebbe andata incontro.
Niente di tutto questo importava.
Importava solamente svegliarsi ogni mattina carica di aspettative, vogliosa di scoprire il mondo, senza sapere come sarebbe andata la giornata o quali sorprese le avrebbe riservato, perché tutto poteva essere qualunque cosa, tutto poteva diventare qualsiasi cosa, bastava un pizzico di volontà, un po’ di buonumore.
Bastava avere una sola certezza, per andare avanti: cercare di essere felici.
Ottimisti.
Vivere.
Sorridere ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e ogni secondo che passava, nonostante gli ostacoli, nonostante le difficoltà.
Perché il futuro non ha, ne avrà mai una consistenza.
È come un fiore ancora chiuso.
Attende solo il sole per mostrare le sue meraviglie.
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