La metamorfosi di Philippe
Philippe, mon petit, non avere paura di niente. Non dimostrarti timoroso davanti alle cose nuove, a ciò che verrà, io e la mamma saremo sempre al tuo fianco, non ti tradiremo mai diceva sempre mio padre orgoglioso del suo bambino. Ho imparato dalla vita che non si devono fare promesse se non si è certi di poterle mantenere. Avevo appena tre anni quando papà mi ha detto addio. Non è di certo grazie a lui che sono cresciuto. Se n’è andato via troppo presto per lasciare una traccia nella mia vita. A tre anni non si sa cos’è la morte, un genitore non può spiegarlo, non ci riesce. Deve trovare un pretesto, una scusa che regga che poi col tempo si evolverà, grazie all’aggiunta di dettagli sempre più consistenti e veritieri, fino ad arrivare alla realtà dei fatti. E quando arriva l’ultimo importante particolare che fornisce un epilogo alla storia che da tanto tempo aspettava una conclusione, non puoi fare altro che crollare. Per me questo epilogo non c’è mai stato. Isabelle diceva che papà era partito per un lungo viaggio e che sarebbe tornato per il mio compleanno. Eppure quelle candeline, ogni anno sempre più numerose, si spegnevano sempre con le stesse facce davanti. La mia, quella di Isabelle e quella del suo unico fratello, lo zio Jacques. Isabelle non si rendeva conto che in questo modo non prendeva in giro solo me, ma anche se stessa. Io ero consapevole del fatto che mio padre non c’era più, avevo visto più volte nei film qualche persona accasciarsi a terra e non rialzarsi fino ai titoli di coda. Però non potevo e non volevo crederci, seguivo alla lettera la farsa che Isabelle costruiva ogni giorno di più, parlando di telefonate inesistenti con papà che casualmente avvenivano sempre quando io non c’ero. Lei fingeva, mi prendeva in giro. Io nel frattempo diventavo sempre più solo.
Non c’era nessuno a casa con me, Isabelle usciva la mattina presto e tornava la sera tardi, stravolta. Non avevo nemmeno un animale domestico di cui prendermi cura. Avevo solo una farfalla. L’avevo catturata un giorno ai giardini e l’avevo chiusa in un salvadanaio. Avevo decorato la sua casa con fiori e fili d’erba. Ero piccolo, non sapevo cosa mangiassero le farfalle, perciò non le davo niente. Era sempre lì, con me. Il salvadanaio era ben nascosto sotto il letto, Isabelle non ne era a conoscenza, me lo avrebbe sicuramente gettato via se lo avesse saputo. Avevo bisogno di quella piccola creatura. Possedeva delle ali argentate con macchie nere sparse ovunque, amavo osservarla. Era mia, mi apparteneva, lei sì che non mi avrebbe mai tradito. La sentivo sempre al mio fianco. Volevo diventare come lei, piccola ma splendente. Scientificamente non era possibile, ma ci provai. E a furia di sperimentare questa mutazione anche io mi sono formato il mio bozzolo. Sul divano di quel maledetto bilocale a Chantilly dove trascorrevo la maggior parte del mio tempo. Non andavo all’asilo, nessuno mi ci accompagnava. Isabelle non poteva, aveva di meglio da fare. Nonostante ciò mi alzavo sempre alla solita ora, ero abituato a puntarmi la sveglia da solo. Poi mi posizionavo sul divano e iniziavo a tessere i filamenti del mio involucro. Mi avvolgevo di strati di seta invisibile che mi soffocava. Spesso andavo alla finestra per prendere una boccata d’aria e distrarmi dal malore. Il bozzolo si ingrossava ogni giorno di più, senza fermarsi. E ogni giorno le boccate d’aria si duplicavano. Fui costretto a spostare il divano vicino alla finestra per poter stare tranquillo. Sul davanzale, in assenza di Isabelle, ponevo il salvadanaio con la mia farfalla. Ero arrivato a non avere nemmeno più le forze di osservarla, aspettavo solamente di trasformarmi per poter poi volare via con lei.
Le leggi della fisica non prevedono che un uomo possa spiccare il volo. Eppure vi garantisco che io ce l’ho fatta, ho sconfitto ogni regola e ho dato una svolta importante alla mia vita. Isabelle invece non ce l’ha fatta, ma io non ne ho colpe, più volte ho cercato con lei un punto di incontro. Per discutere, parlare. Ma lei non voleva o probabilmente non ci riusciva. Aveva sofferto tanto per l’addio di papà, ma non era stata in grado di ripartire. È rimasta ferma, come un cactus nel deserto attende che le sue spine cadano tutte, una per una, per salutare definitivamente il mondo, mentre attorno a sé il vento porta avanti e indietro i granuli di sabbia, sempre in cerca di una meta migliore di quella precedente. Anche la vita di Isabelle si era fermata, le persone correvano attorno a lei, in cerca di occasioni migliori, di opportunità da sfruttare, da vivere. Lei no. Solo il cuore le pulsava ancora. Subiva, impassibile. Si sfogava solo con me, non aveva il coraggio di farlo con gli altri. Il silenzio accumulato nella giornata esplodeva contro suo figlio, attraverso urla isteriche e schiaffi. Ho ancora qualche cicatrice, dei segni indelebili del mio passato.
La mia svolta è arrivata con la fine dell’estate. Avevo sei anni. Era un martedì, in casa vigeva il solito silenzio mattutino, io mi stavo lavando i denti con lo spazzolino di papà. Lo avevo conservato come ricordo. Mi stavo sciacquando la bocca, quando Isabelle mi chiamò con tono gelido e severo: «Philippe, vieni qua». Sputai subito l’acqua che avevo in bocca, alzai lo sguardo verso lo specchio, fissai la mia figura per qualche secondo. Ero pallido, timoroso, sconcertato davanti a ciò che inevitabilmente mi aspettava. Stranito. Come quando la pupa, dopo aver abbandonato le sembianze di bruco, deve stabilire se è arrivata l’ora di abbandonare il bozzolo. «Philippe, esci da quel bagno, non sei mica una donna!». Uscii dal bagno, a testa bassa. Isabelle non era uscita ancora di casa. “Strano” mi dissi. Mi indicò di sedermi accanto a lei. Lo feci, senza aprire bocca. Lei fissava il vuoto, io osservavo le sue mani. Le dita tutte mangiucchiate tremavano.
All’anulare sinistro non aveva più l’anello che le aveva regalato papà, diceva di averlo perso. La situazione era imbarazzante, il silenzio avvolgeva quella stanza. Con un filo di voce Isabelle decise di rompere il ghiaccio: «Philippe, ti devo parlare». Il mio sguardo si spostò dalle sue dita alle sue labbra. Tutti dicevano che la mia bocca era uguale alla sua, peccato che io non l’avrei mai usata per pronunciare le parole che mi stava per dire. «Philippe, ho riflettuto molto in queste settimane. Fuori il mondo gira senza fermarsi. Uscendo ho avuto modo di notarlo, capirlo. Io devo ripartire, ricominciare, rialzarmi. Devo andare avanti, non posso restare ferma, la vita continua, capisci? Ma certo che mi capisci, anche se hai solo sei anni, sei un bambino sveglio, tale e quale sua madre!» mi disse, accennando un sorriso. Sorrisi anche io, non sapevo che fare, non capivo a cosa volesse arrivare con quelle parole. «Tuo padre mi diceva che non mi avrebbe mai abbandonata, eppure l’ha fatto. Chi sa dov’è ora, non mi telefona da un po’, ma non mi interessa. Non si è fatto scrupoli a lasciarci qui, non credi?». La fissai negli occhi, tanto azzurri quanto tremolanti davanti al mio sguardo, come le onde del mare si imbattono in uno scoglio possente, senza intimorirlo. Io ero un bambino forte. «Mamma tu sei una bugiarda» le dissi con tranquillità. Erano le poche parole che mi sentivo di pronunciare in quel momento, le uniche che mi erano venute in mente nella disperata ricerca di una frase che infrangesse i suoi pensieri. Uno schiaffo. Due. Arrivò il terzo. Io ero fermo, zitto. «Philippe, non rispondere così a tua madre!». «Ah, madre? Solo adesso ti definisci madre?». Un altro schiaffo. «Philippe, ti ho detto di moderare il tono!» urlò, con una voce graffiata e sofferente. Dovevo reagire, dovevo dire qualcosa. Niente.
Pensai a qualche frase che papà usava quando litigava con lei. Niente, il vuoto. Lei mi fissava con gli occhi spalancati immersi in un mare di lacrime che presto avrebbero straripato. «Mamma io non ce la faccio più, sono stanco delle tue scuse, di come ti comporti. Io con te mi annoio, io non ti voglio bene. Non parliamo mai, non usciamo mai. Le mamme brave non si comportano così, da quando papà se n’è andato ti comporti male con me, non è giusto, sei cattiva!» dissi, alzandomi di colpo dal divano e puntandole il dito contro. Non so perché lo feci, ma era come se tutta la sofferenza accumulata fino a quel giorno fosse scappata dall’interno del mio cuore, liberandolo dal male, scorrendo per le vene del mio corpo per poi uscire, in pochi secondi, attraverso quelle parole. Inevitabilmente, conclusa la frase, scoppiai a piangere e continuai: «Quando c’era ancora papà mi avevi promesso di starmi sempre vicino, invece non è così, perché sei una bugiarda Isabelle!». Fu la prima volta che la chiamai con il suo nome, non avevo mai osato prima. Da quel momento nella mia mente la sua figura si cancellò, definitivamente. Scomparve. Per me lei diventò Isabelle, la moglie di papà. Solo i documenti la dichiaravano ancora mia madre. Il mio cuore la rifiutava.
Isabelle prese un cucchiaio di legno e iniziò a picchiarmi, trattenendomi le braccia che cercavano di fermarla. Urlavo, senza speranza. Scalciavo ovunque. Lei continuava, pronunciando parole strane. Era pazza. «Basta Isabelle, basta ti prego, lasciami andare, te lo chiedo per favore!» urlavo in un dolore assordante che non aveva scatenato nei vicini alcun presentimento. Ma lei continuava, a ogni mio urlo si alternava un suo singhiozzo. Qualcuno finalmente suonò al campanello. Isabelle fece finta di niente. Ormai nemmeno più parlava, non ci riusciva. Sfogava tutta la sua frustrazione in quel cucchiaio di legno. Il bersaglio ero io, non avevo scampo. Andò avanti per qualche minuto, poi col volto distrutto si lasciò cadere a terra. Non c’erano aggettivi per descriverla. «Cos’ho fatto, cosa sono diventata!» disse. Quella fu l’ultima frase che sentii pronunciare dalla sua bocca. Poi chiusi gli occhi gonfi dal dolore e mi rannicchiai sul divano.
Dormii fino a sera, non sognai niente, volevo riposare e riflettere. Desideravo solo fuggire nell’Isola che non c’è con Peter Pan per poter seguire il suo stile di vita. Senza genitori, libero di decidere in autonomia e di costruirsi la propria vita senza il controllo di nessuno. A differenza sua però io volevo crescere. Mi svegliai, tutto barcollante, ero distrutto fisicamente. Le tapparelle erano tutte abbassate, accesi la luce del salotto. Non c’era nessuno. Mi affacciai alla finestra per vedere se nel parcheggio c’era l’automobile di Isabelle, ma non c’era traccia della sua Renault Clio. Corsi verso il suo armadio: era vuoto, c’era qualche scatola di scarpe vuota e qualche boccetta di profumo. Aprii i cassetti inferiori e trovai tutti gli album di foto strappati in brandelli. In bagno trovai nel lavandino lo spazzolino di papà spaccato in due. Isabelle se n’era andata e aveva eliminato qualsiasi traccia del suo passato. Come se bastasse così poco per dimenticare gli affetti. Mi guardai intorno, smarrito. Ero confuso. Quelle mura non significavano più niente per me. Non c’era più alcuna radice che mi trattenesse all’albero della mia famiglia. Mancava poco. Stavo per staccarmi dal ramo, precipitare nel vuoto. E poi seguire il vento, ovunque mi volesse portare. Mi preparavo alle prime cadute dovute all’inesperienza. Non avevo paura. Dovevo schiudermi, aprirmi al mondo. Ma in che modo? Avevo sei anni. E a sei anni non puoi fare altro che seguire l’istinto, correre, come gli animali. Papà mi aveva sempre raccomandato di non farlo, di riflettere su ogni cosa. Ma a sei anni la vita è un gioco. Non pensai nemmeno a portarmi una borsa con dei vestiti, non chiusi la porta di casa, non mi cambiai. Uscii in pigiama, mi misi solo le scarpe. Varcai la porta di casa per la prima volta da solo. Non lo avevo mai fatto. Fu una sensazione strana, per la prima volta mi si apriva davanti una fessura, una via d’uscita.
Mi voltai un secondo, fissai il mio divano. Lì si era formato il mio bozzolo e ora piano piano lo stavo abbandonando. Osservai per qualche secondo il salvadanaio sul davanzale. La mia farfalla. Rientrai, presi il salvadanaio e mi avvicinai nuovamente alla soglia di casa. Aprii il salvadanaio e un istante dopo lo lasciai cadere. Morta, decomposta, non so come. Ma capii che alla sua morte corrispondeva anche la mia rinascita. Era arrivato il momento. Urlai, come quando un neonato emette il suo primo vagito. La seta si sgretolò con un rumore invisibile ma allo stesso tempo assordante. I vicini uscirono, ma prima che potessero aprire bocca o intervenire scappai attraverso la porta di ingresso della palazzina. Una volta uscito, mi lasciai cadere a terra. Mi accarezzai il viso. Alzai le mani al cielo come quando la farfalla spiega per la prima volta le ali e accarezza il vento. Poi volai. Sopra le persone. Non so nemmeno io come. Eppure stavo volando. Ero solo e avevo sei anni. Ero basso, gracile. Ma ero sveglio, sapevo cosa dovevo fare. In quel momento seguii il mio sesto senso, mi presi le mie responsabilità. Papà e Isabelle erano il mio passato, io in quel momento dovevo scegliere cosa fare della mia vita. Da solo. Dovevo imparare a vivere da autodidatta. Io potevo farcela, ne ero sicuro, ero destinato a brillare sulle altre farfalle.
E ce l’ho fatta, seppure con l’aiuto di qualcuno. Sono cresciuto, mi sono evoluto, non ho mai smesso di pensare al mio futuro. Non mi sono mai voltato indietro, ho dimenticato il mio passato. Non mi sono mai accontentato di niente, sono sempre stato una persona ambiziosa. E ora sono qui, a scrivervi la mia storia. Oggi io sono Philippe Laurent, ho trentaquattro anni, vivo a Parigi con la mia famiglia in un trilocale. Ho sposato Julienne e con lei ho due figli: Marc, quattro anni e Susanne, un anno e sei mesi. Mi sono laureato in Lingue e insegno francese al Lycée Charlemagne. Sopra al mio appartamento abitano François e Corinne, le uniche due persone che mi hanno sostenuto nella mia rinascita e nella ricerca del mio futuro. Mi hanno adottato e devo tanto a loro. Di papà non so niente, probabilmente è morto, ma non ne sono ancora sicuro. L’epilogo per me non è ancora arrivato. Isabelle è tornata a Chantilly, così mi hanno detto i miei genitori. Si è risposata e ha una figlia. È venuta più volte a cercarmi, ma io non mi sono mai fatto trovare, per mia volontà. Ho imparato che non bisogna mai smettere di sognare, cari lettori, perché se questo accadesse l’umanità sprofonderebbe in un baratro. E proprio per questo io continuo a sognare a occhi aperti, giocando con i miei figli e scrivendo per voi che ora leggete le mie righe.
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