Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
16ª edizione - (2013)

Sarebbe stato un futuro d’amore (forse)

Ricorderò sempre il giorno in cui ho scoperto l’amore, sai.
Non l’avresti detto, ma per me l’amore era stare sdraiati su un prato sotto lo stesso cielo a leggere due libri diversi, pensando di essere nella stessa storia.
Ricorderò sempre il libro che avevo aperto sulle ginocchia in quel giorno.
Non l’avresti detto, ma non è un dettaglio irrilevante. È come se una donna ricordasse il colore dell’abito del matrimonio, la data del parto, gli anni del figlio.
Te lo dissi, ricordi? Che con te ero pronta ad affrontare l’avvenire.
Avevo diciassette anni e il futuro aveva le tue sembianze.

Mi sei tornato in mente così, un lunedì sera come tutti gli altri. Stavo caricando la lavatrice e mi sono accorta di una macchia d’erba sui pantaloni di mia figlia. È stato un attimo: quel giorno, e quel libro; quel ragazzo e quel bacio.
Non l’avresti detto, ma mi sono trovata le guance rigate di lacrime. È uno dolore insolito, voler rivivere qualcosa che non hai vissuto.
Ho pianto perché a diciassette anni non avevo paura del futuro con te al mio fianco; mi sentivo un pioniere e sapevo che qualunque posto insieme a te sarebbe stato casa.
Mi sono ritrovata così, a piangere una vita non vissuta, davanti a una lavatrice, un lunedì sera come tutti gli altri.
Mi sono seduta e ho iniziato a scriverti.
C’erano parole che sembravano essere da sempre dentro di me, aspettavano solo di essere trascritte.
Mi sono ritrovata a ripercorrere una vita, un lunedì sera come tutti gli altri.
C’erano odori che sembravano essere da sempre dentro di me, aspettavano solo di essere ricordati: quello della crema solare che ti spalmavo sulle spalle nell’estate della maturità e del profumo che mi spruzzavo sul collo prima di uscire; quello della gomma della tua bicicletta e quello delle tue lenzuola.
Ero seduta al tavolo della cucina quella sera, stringevo una vita tra le mani impiegata, figli, cane, panni da stirare e scrivevo di una vita che avrei potuto vivere, ma non ho vissuto e di un’adolescenza più presente di quanto potessi pensare.
Ricordai con le dita tremanti quel giorno di fine aprile e il suo odore di primavera. C’era odore di scarpe da ginnastica nuove e di erba tagliata, odore di nuove esperienze e di paura. Sul pullman che mi portava da te c’era odore di cane e di sudore, ma in quel giorno non ci badai. Scesi dal pullman e c’eri tu.
Eri bello quel martedì di fine aprile e ti schermivi gli occhi con una mano, fermo sotto la pensilina.
Quel giorno, sdraiati su quel letto bianco in quella camera immacolata, con la tapparella rotta e le mensole colme di libri sopra il letto, mi dissi che saresti rimasto con me per sempre. E mi cadde un libro in testa.
Poi ci baciammo, mentre io mi tastavo la testa, convinta che stesse per venirmi un bernoccolo. Ridemmo tra le nostre bocche, felici, e in quel momento mi convinsi che non sarei mai più riuscita a distinguere la mia risata dalla tua.
Ti eri spruzzato il profumo che mi piaceva tanto quel giorno, lo ricordo solo ora. L’avevamo comprato a Londra, in vacanza studio, nell’estate del nostro primo bacio.
L’avevi messo perché mi piaceva, adesso ne sono rimaste poche gocce.
Ne sono rimaste poche gocce e non lo trovi più.
Non lo trovi più perché trent’anni fa te l’ho rubato, ma non lo sai.
Mentre la mia bocca urlava e le mie orecchie scoppiavano per quelle parole stonate, il mio cuore mi imponeva di prendere con me quella boccetta nera.
Mi disse che ci sarebbero state notti in cui avrei sentito la tua mancanza.
C’erano notti in cui mi alzavo e aprivo il tuo profumo. Improvvisamente eravamo di nuovo io e te davanti a quel negozio basso con la bandiera inglese, in quella nostra prima estate. Eravamo io e te e i nostri baci al sapore londinese, io e te e l’odore di pioggia appena caduta, il profumo di bagnato e quello di muffin caldi. Io e te e ombrelli colorati sempre aperti, cabine telefoniche e scoiattoli a Hyde Park. Io e te sotto un cielo nero urlando un per sempre che non saremmo stati in grado di mantenere. Non sapevamo che avremmo fallito, io e te.
C’erano altre notti in cui non riuscivo a capacitarmi di come avrei fatto senza di te, forse non ci sarei mai riuscita. Forse ci sarebbero state tante altre notti trascorse a rigirarsi nel letto, pensando a quello che sarebbe potuto essere, ma non è stato.
A quello che avremmo fatto, ma non faremo.
In quelle notti riascoltavo la tua voce che mi diceva che il futuro l’avremmo affrontato insieme, io e te, e che saresti stato disposto a inscatolare i tuoi dischi in vinile per far posto a me in casa tua. Avrei stipato in una valigia la mia infanzia, i miei poster, la macchina fotografica, i giornalini e i libri; smalti, trucchi, pupazzi e mi sarei rifugiata in una vita comoda con te. Mi dicevi che probabilmente la nostra sarebbe stata una catapecchia in periferia senza balcone o magari una villa rustica, ma aggiungevi che in ogni caso non ti sarebbe interessato, perché saresti riuscito a essere felice solo pensando che avremmo camminato entrambi sullo stesso pavimento.
Erano i tempi in cui credevamo che il destino fosse dalla nostra parte, come un tifoso fedele alla propria squadra del cuore.
Erano i tempi in cui avresti giurato che il nostro amore non fosse effimero.
Il sole brilla, irradia, rende felice ognuno, ma alla fine tramonta, inesorabilmente.
Avevamo costruito una casa con i nostri mattoni, finché non li vedemmo cadere nello stesso momento. Devastante.
Sembrava non esserci niente che potesse tenere su quella fortezza di ricordi, ma forse ci sarebbe stata, se solo avessimo cercato ancora.

In casa tua non ci entro più da trent’anni ormai, ma la ricordo nei minimi particolari.
Ricordo la porta senza chiavi e le scarpe di tuo fratello sporche di fango all’ingresso.
Ricordo la cucina dai mobili blu e il frigorifero con i magneti.
Ricordo quando ti toglievi la maglietta e cucinavi per me. Dicevi che avresti avuto caldo altrimenti, in realtà volevi farmi vedere quanto fossi bello, lo so.
Ricordo il tuo bagno e quello specchio sopra il lavandino, dove ci guardavamo abbracciati e tu mi giuravi che fossimo bellissimi. Poi mi baciavi le palpebre.
Ricordo la tua camera e il tuo letto a castello.
Ricordo il tuo poster di Einstein alla parete e le chitarre appoggiate alla libreria.
Ricordo anche quando ci sedevamo a terra con le chitarre.
E tu suonavi, e io cantavo.
Poi io suonavo, e tu ridevi.
C’era il giardino con le sdraio e dietro un acero rosso la piscina azzurra.
Era la casa più strana del mondo, ma c’eri tu e non mi importava di essere strana.
Per l’ultima volta ci entrai a fine ottobre, una domenica pomeriggio.
Eravamo io, te e tuo fratello, seduti intorno al tavolo in cucina. Il tabellone del Risiko aperto, i carri armati colorati divisi - io volevo sempre i viola, ricordi? - e la teiera sbuffante sui fornelli.
Reggevo tra le mani un intruglio rossiccio e avevo un baffo bianco di zucchero a velo sulla guancia.
Ma non m’importava, mi sentivo a casa ormai.
Se quel giorno avessi saputo che sarebbe stata l’ultima volta che sarei entrata in quella casa, avrei lasciato lì qualcosa: una forcina, un codino, il lucidalabbra. Penso che un pretesto per tornare bisogna sempre seminarselo dietro, quando si parte.
E poi in autunno cademmo. Ci tenevamo su da cinque anni ormai.
Avevamo appena vent’anni ai tempi.
La vita avrebbe potuto farmi prendere una via inaspettata da un momento all’altro, e poi un’altra, un’altra ancora, fino a fermarmi, un giorno, e chiedermi come ci fossi arrivata lì.
E quel giorno, quando mi sarei fermata a pensare, quando non avrei imboccato una strada che mi si parava davanti, sarei diventata vecchia.
Forse mi sarei seduta per terra e avrei iniziato a singhiozzare sommessamente. Forse qualcuno in macchina avrebbe strombazzato, qualcun altro mi avrebbe urlato di levarmi da lì, ma io avrei sentito solo quell’incolmabile rimorso.
Mi sarei presa a schiaffi, forse. Mi sarei odiata per averti lasciato andare via. E poi, rievocandoti, un lunedì sera qualunque, mi sarei meravigliata di come ti avessi custodito gelosamente dentro di me per tutto quel tempo.
Mi sarei ricordata all’improvviso di quei capelli neri con il gel; tu e la tua monocromia nel vestire, le tue fisse mentali e il tuo sorriso; tu e i tuoi occhi che al sole cambiavano colore, la barba odiata che mi grattava il viso, il tuo basso e le tue passioni. Quel ragazzo che mi aveva cambiato la vita, qualunque cosa fosse successa, sarebbe rimasto per sempre dentro di me.
Sarei diventata vecchia così, con un sorriso bagnato, ingozzandomi di ricordi davanti a una lavatrice in corsa.
Ci rincontrammo in una corsia di supermercato alcuni anni dopo quel distacco, indaffarati a cercare l’offerta della domenica pomeriggio. Ricordi?
I nostri sguardi si incrociarono, come accadde quella prima volta, a tredici anni. E in quello sguardo scorgemmo i nostri anni insieme, le promesse infrante e quel primo per sempre urlato al cielo. Ci riconoscemmo immediatamente, ma non parlammo, eri uno sconosciuto ormai.
Ti avevo lasciato ventenne con una chitarra sulla spalle e un diploma stropicciato in tasca. Ora ti ritrovavo così, con un bambino appeso al petto e il carrello colmo di pannolini e omogenizzati.
Dissi a me stessa che forse ti eri coricato su un prato anche con un’altra ragazza in quegli anni di lontananza: il naso in un libro, le dita che si sfiorano, l’erba tra i capelli.
Chissà se anche a lei è caduto il libro in testa, se anche lei ha sorseggiato il tè ai frutti di bosco, in cucina, quando fuori è buio.
Chissà se ti chiedi ancora che fine abbia fatto il profumo. Chissà.

Ti accantonai in quell’angolo della memoria in cui si buttano le cose brutte e cercai di pensare ad altro. Mi sposai, sai? Ma non ero felice e non capivo il motivo.
Stasera ho capito che avremmo dovuto fare a pugni con il destino trent’anni fa, perché il mio futuro eri tu.
Stasera mi stavo chiedendo come avesse fatto un amore a lungo soffocato a tornare a galla e vivere di nuovo.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010