Incubo pirandelliano
Mi sveglio, bevo il caffè, mi lavo, mi vesto, esco di casa.
Vado a scuola, parcheggio la bici, mi avvicino ai miei amici. Sembrano non riconoscermi.
Ehi, ragazzi. Niente. Non mi vedono, credo. Ehi, siete diventati scemi? Non siamo un po’ cresciuti per questi scherzi idioti? Va bè, non ho tempo, ci vediamo all’intervallo.
Entro a scuola, striscio il badge. Non funziona. Lo sapevo che prima o poi questi cosi inutili si sarebbero rotti. Al diavolo.
Salgo in classe, ma il mio banco non c’è più. Anzi, sembra che al mio posto ci sia proprio un’altra persona, che non sono io. Ha i miei stessi capelli, i miei vestiti, ma quella non sono io. Non ha la faccia. Nel senso che proprio il viso, lei, non ce l’ha.
Indossa una maschera bianca, priva di lineamenti. Il prof posa lo sguardo su di me: ora mi riconosce e mi spiega tutto, penso. Niente, il suo sguardo mi sorpassa. Anche lui.
Sono diventata invisibile durante la notte? Mi sembra che siano tutti pazzi. O forse lo sono diventata io. Mi avvento sulla ragazza me senza faccia, le strappo la maschera dal viso.
Ma non fa una piega. Ne ha un’altra sotto, identica alla prima. Non è possibile. Urlo. Corro, corro più veloce che posso. Giù per le scale, veloce, esco da quell’inferno.
È un sogno? Sì, è solo un brutto incubo, ne sono sicura. Ora mi sveglio nella mia stanza.
Ma quando mi sveglierò? Quando la mia vita smetterà di essere vissuta da una ragazza con una maschera priva di lineamenti? Quando la società si deciderà a riconoscermi come una persona, non come una oggetto senza personalità il cui scopo è produrre senza protestare?
Sì, penso, è proprio così. La società ci opprime, togliendoci ogni possibilità di riscattare la nostra unicità, innalzando l’ipocrisia ai suoi massimi livelli, divinizzando l’omologazione e il pregiudizio. Devo scappare da qui.
Finalmente sono fuori, in cortile. Correndo inciampo in qualcosa, guardo in terra. È una maschera bianca.
Mi guardo intorno: una folla di persone, spaventate e affannate come me, mi circonda. Il terreno è ricoperto di maschere bianche, che ognuno sembra impegnato a strappare dal viso di una persona, identica a lui.
Man mano che il terreno si ricopre di maschere, la visuale si fa sempre più ristretta. Le persone sono davvero pazze, penso.
O forse no.
Le persone sono stufe di essere trattate come burattini, prese per le braccia e fatte ballare da fili invisibili.
Sono stanche di portare maschere, di vedere la propria vita vissuta da qualcun altro, di essere prese in giro da una società che non le rappresenta.
Sono esasperate da un modello di società che le vuole zitte e buone, produttive per il bene del Paese: consumatori fedeli e docili come agnellini. La maschera, loro, non la vogliono più portare.
Mi sveglio, nel buio della mia camera. Meno male, non ne potevo più di quell’incubo tremendo. Stava diventando ossessionante.
Guardo sul mio comodino.
Con gioia, vedo che la mia maschera è ancora lì, intatta, salva.
Nessuno ha cercato di strapparmela. Nessun pazzo ha pensato di togliermela. Non soffocherò sotto il peso di migliaia di maschere bianche, prive di lineamenti.
Ora posso continuare a non vivere.
Questo breve racconto è ispirato alla lettura di alcuni racconti di Luigi Pirandello, forse l’autore del Novecento che preferisco per la sua sorprendente attualità.
Un’attualità talmente vera, reale, che può essere proiettata addirittura nel futuro.
Non si può non pensare a Pirandello quando si sostiene che la crisi che stiamo vivendo oggi non sia solo, anche se prima di tutto, economica, ma anche culturale, sociale e, in un certo senso, esistenziale.
Il cittadino, esasperato da quello stesso governo che ha rovinato senza alcuna opposizione popolare il proprio Paese, si rende ora conto che avrebbe potuto fermarlo prima, quel “governo ladro”.
Forse Pirandello direbbe che le persone, finalmente e inevitabilmente, dalla Spagna alla Grecia, passando per l’Italia, hanno sentito il treno fischiare.
La maschera che finora hanno portato, di cittadini accondiscendenti e addirittura complici di uno Stato che non era degno di rappresentarli, non aderisce più ai loro visi.
Ma una volta tolta questa maschera, cosa resta? Una flebile speranza di riscatto o la triste consapevolezza di essere ancora una volta raggirati?
La vita comunque sfugge, la libertà esiste davvero?
Il rischio, ancora una volta tutto pirandelliano, è che senza maschera la condizione sia ancora più critica. Forse è meglio tenerla, quella maschera?
E allora ho pensato, dentro di me: cosa ne sarà di noi?
Nel futuro, se vogliamo anche molto prossimo, tenteremo ancora di liberarci dalla maschera o arriveremo a un punto tale che rinunceremo del tutto alla nostra individualità, per comodo vivere? Riusciremo a liberarci dall’omologazione, dall’ipocrisia malata, ci sveglieremo dal sogno con l’intenzione di buttare via la maschera?
Lotteremo ancora per affermare i nostri diritti, per essere rispettati nella nostra individualità come nella collettività, o saremo del tutto sordi al fischio del treno?
La risposta, semplice quanto palese, è una sola: dipende tutto da noi.
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