La vita dopo Arturo
di Gilda Yael Bassani
Premio speciale ANPI Barona Milano
Tre cose il professor dottor Arnaldo Esteti, laureato a Pavia in medicina alla tenera età di ventiquattro anni, non poteva sopportare: i fascisti, la torta ai cavolfiori e formaggio di sua madre, e i gatti. Fortuna vuole che il dottore potesse vantare un alloggio ben lontano da tutti e tre, un posto tranquillo dove studiare mentre la guerra infuriava nelle pianure e nelle città. Certo, una simile dimora non presentava solo vantaggi, ma non si può chiedere troppo dalla vita.
Innanzitutto, i suoi coinquilini erano perlopiù scorbutici, perennemente arrabbiati e pronti a farsi del male in continuazione. Questo richiedeva i suoi servizi ventiquattrore al giorno, ma era così che il dottor Esteti si pagava l’affitto. In secondo luogo, fuori faceva un freddo boia e c’era pochissimo da mangiare. A quello non si sarebbe mai abituato. La fame e il freddo incoraggiano la pigrizia, una bestiaccia malvista dal dottore; per questo aveva trovato il modo di portare con sé tutti i suoi libri. Per nessuno motivo al mondo avrebbe lasciato la sua cultura a Milano senza di lui, in parte perché aveva sentito dire che i fascisti usavano i libri per foderare i materassi (e il dottore aveva la pessima abitudine di credere a qualunque pettegolezzo gli giungesse all’orecchio).
A conti fatti, il dottor Arnaldo Esteti non poteva certo lamentarsi della propria vita. In quanto medico e partigiano della brigata Castelrosso, era riuscito persino a evitare di finire nell’esercito della neonata Repubblica di Salò. Arnaldo era un Bandit e ne andava orgoglioso.
Il mese di dicembre era stato particolarmente duro per le nuove formazioni partigiane, ed Esteti l’aveva sperimentato in prima persona. Il dottore passava metà delle sue giornate a gravitare intorno al piccolo ospedale che era riuscito ad allestire con l’aiuto di un’infermiera: si trattava di un rudere poco lontano dalla vecchia baita che la brigata aveva riadattato come rifugio, un relitto di tempi passati e forse più pacifici.
Finalmente marzo era arrivato: marzo dell’anno 1945, ossia il quinto di guerra per l’Italia. Come si mormorava in giro, forse l’ultimo. Le nevi si stavano finalmente sciogliendo: quella mattina, Esteti aveva scorto la corolla bianca di un bucaneve fare capolino dal sottobosco. Anche gli altri partigiani non erano del tutto indifferenti agli effetti benefici della primavera in arrivo: sembravano persino meno scostanti del solito, e le reclute più giovani avevano infine deciso che il comportarsi come eroi spericolati – fornendo più lavoro che mai a Esteti – non li avrebbe portati poi tanto lontano.
Nessuno aveva calcolato l’arrivo delle piogge primaverili, ovviamente. E nessuno aveva calcolato che i fascisti non avevano alcuna intenzione di lasciarli in pace.
Così, un grigio e uggioso pomeriggio di primavera, arrivò lui. Sì, lui, il guaio che meno ci si aspetta, quello che piomba fra capo e collo e non se ne va più. Quello per cui, sotto sotto, Arnaldo si stava preparando da un bel po’.
A qualche minuto di distanza dalle due, Esteti si era ritirato nella stanzetta e, nonostante le migliori intenzioni, si era assopito sul pagliericcio che fungeva da letto. A malapena sentì il lieve bussare alla porta della stanza, almeno finché l’infermiera non fece irruzione nella stanza.
«Dottore, sono qui fuori da quasi dieci minuti!» esordì ansimante. «Pensavo le fosse successo qualcosa!».
Nel tentativo di mascherare il risveglio brusco, l’uomo saltò in piedi come un soldato sull’attenti. «Signorina Mariella!», esclamò «mi dispiace di averla spaventata. Sembra che il sonno abbia avuto la meglio su di me. Ha bisogno di qualcosa?».
La donna si lisciò il grembiale, evitando con accuratezza il suo sguardo. «Per la verità sì, dottore. Un paziente richiede la sua assistenza; è un momento alquanto… delicato, se sa cosa intendo».
Arnaldo corrugò la fronte. Ci arrivò dopo qualche secondo. «Oh. Capisco. Come mai non se ne può occupare lei?».
«Io non posso restare, dottore. Forse gliel’avevo già accennato: devo tornare a casa per assistere mio padre, che è solo e malato. Parto oggi stesso. Mi farebbe un favore immenso. E lo farebbe a lui».
Arnaldo si grattò pensosamente la testa. «Lui, eh? Cosa gli è capitato, con esattezza?».
«TBC polmonare, dottore. Ce l’hanno mandato da un altro distaccamento perché lo ricoverassimo. Non so chi sia stato il pazzo ad avere l’idea di farlo viaggiare nelle condizioni in cui è, ma ormai è troppo tardi per i rimpianti. È malato da un anno».
Arnaldo maledì silenziosamente il suo buon cuore, che lo stava già costringendo ad alzarsi. Colpa di sua madre: cristiana fino alle sopracciglia, l’aveva tormentato sin da bambino perché crescesse come un brav’uomo. Il bene che fai torna sempre indietro, diceva, ma nel frattempo infornava una torta ai cavolfiori e formaggio dietro l’altra, costringendolo a cercare riparo dai vicini.
«Vada pure», conclude sbrigativo «e faccia buon viaggio: mi occuperò io di quest’uomo».
Mariella fece una smorfia. «Non uomo: ragazzo, dottore».
«Oh!».
Arnaldo non disse nulla, preferendo congedare la donna con una stretta di mano e un sorriso. Rimasto da solo, si lavò le mani nell’acquaio nell’angolo e, tanto per precauzione, si infilò un altro maglione. È noto e risaputo che il vento gelido della montagna ha l’antipatica tendenza di farti volare via qualunque genere di protezione, perciò Esteti prese un profondo respiro, si ficcò le mani in tasca e si lanciò di corsa nella pioggia.
L’ospedale era il luogo più silenzioso dell’intero distaccamento. I pagliericci improvvisati erano sistemati ordinatamente lungo la parete scrostata, tutti occupati da silenziose figure immerse nel sonno. Esteti percorse la piccola baita in lunghezza per arrivare all’ultimo lettino.
D’un tratto, il giaciglio cominciò a parlare. «Buongiorno, dottore. È venuto per abbattermi definitivamente o vuole soltanto controllare se le voci sono vere?».
«Quali voci?».
Una figura si alzò dal lettuccio e si voltò. Esteti si ritrovò a fissare il viso imberbe e spaventosamente pallido di un ragazzo.
«Che sono così bello da far svenire infermiere e dottoresse in continuazione, ovviamente» replicò senza batter ciglio.
«Non mi è arrivata alcuna voce del genere, soprattutto considerando che di infermiera ne abbiamo una sola. Se riesci, vedi di non metterla fuori gioco, grazie tante».
Quello fece per replicare, ma un accesso di tosse gli stroncò la voce. La sua espressione spavalda si accartocciò come carta nel fuoco mentre si portava un fazzoletto macchiato di marrone scuro alla bocca; quando lo ritirò, una nuova chiazza rossa era andata ad aggiungersi alle altre.
“Sangue arterioso”, pensò il dottore, “certo non un bel segno. Eppure sembra abbastanza in forma per essere giunto alla fine della strada: possibile che l’infermiera si sia sbagliata?”.
«Insomma, dottore» rantolò. «Perché è qui? Me lo spiegherebbe, di grazia?».
Esteti esitò.
«L’infermiera sarà assente per i prossimi… tre giorni, perciò mi sono offerto di sostituirla» mentì. «In caso voi pazienti sentiate il bisogno di un po’ di compagnia».
«Ciononostante sta parlando solo con me, non con quel povero Cristo laggiù. Che strano» osservò cinicamente il ragazzo. «Non è che a qualcuno di voi è venuto in mente che oggi devo tirare le cuoia, vero? Perché si sappia, non ho alcuna intenzione di farlo».
«Ma no, cosa dici!» esclamò Arnaldo. «Ovviamente nessuno vuole insinuare che…».
«Sì, non ho voglia di ascoltare scuse. Basta così».
Il giovane si alzò a sedere e sbadigliò. All’apparenza era sano come un pulcino di pernice appena nato e altrettanto vivace; l’unico indizio che rivelava quali fossero le sue condizioni reali era la traccia di sangue che gli macchiava l’angolo della bocca e il pallore mortale che caratterizzava quasi interamente la sua persona.
«Quindi, visto che rimarrà qui ad assistermi in quelli che non saranno i miei ultimi istanti, tanto varrebbe sapere come si chiama».
Il dottore allungò una mano con riluttanza. «Dottor Arnaldo Esteti, tanto pia…».
«Accidentaccio, che nome orribile!» lo interruppe il ragazzo.
Gli afferrò la mano e la strinse debolmente: era bollente e sudaticcia, fragile fra le sue dita.
«Io sono Arturo, Arturo Corfagli. Nome di battaglia: l’Usignolo. Forse ha sentito parlare di me in giro».
“Usignolo? E cosa faceva, esattamente? Cantava per i fascisti?”, si domandò perplesso Arnaldo.
Ritirò la mano scuotendo la testa. «Ho sentito parlare di Vendicatori, Mitraglie, Pallottole e Napoleoni, ma di Usignoli mai».
Arturo sembrava deluso.
«Ohi. Avrei detto il contrario, sa? Sono piuttosto impressionante sul campo di battaglia. Nessuno si dimentica di me dopo avermi visto in azione».
«Non ne dubito». Esteti tirò una sedia davanti al pagliericcio e si sedette. «Dunque, Arturo: come ti senti? Hai dolori al petto? La febbre è…».
«Forse conosce un certo Falco Pescatore» lo interruppe ancora Arturo. «Almeno di lui avrà sentito qualche voce. Avanti, ci scommetto un polmone. Tanto ormai non valgono più un granché» aggiunse fra sé e sé.
«Falco Pescatore?». Il dottore si spinse gli occhiali sul naso. «Certo che ne ho sentito parlare. Non abito sotto a una pietra, sai? Per tornare al discorso di prima…».
«È mio fratello» si vantò il ragazzo. «Non l’avrebbe mai detto, vero?».
Esteti cercò inutilmente di associare la figura emaciata del giovane che gli sedeva davanti a quella del mitico partigiano che aveva fatto saltare un ponte mentre un intero squadrone di fascisti lo attraversava.
«No, in effetti no» ammise. «Come mai non è qui con te?».
Arturo sembrò sgonfiarsi un poco.
«Be’, ha i suoi doveri da partigiano a cui badare. Suppongo che non se la senta di deludere i suoi amici comunisti mollando tutto per venire a salutare suo fratello. Ma a lei cosa importa, dottore? Non era qui per vedere come stavo?» ribatté con amarezza.
Arnaldo si raddrizzò sulla sedia. «Certo, scusa. Dov’eravamo rimasti?».
«Mi stava chiedendo se ho intenzione di morire entro oggi o se ci metterò di più».
«Non è vero, Arturo,» sospirò stancamente il dottore. «Ti stavo solo chiedendo come ti senti. Tuttavia, se vuoi, potremmo semplicemente parlare».
Arturo si fece attento. Ad Arnaldo sembrò un miracolo essere riuscito finalmente a catturare il suo interesse. «Sì? Parlare di cosa?» domandò.
Esteti azzardò un sorriso. «Non saprei. Potremmo… potremmo parlare un po’ del futuro. Ho sentito dire da qualcuno che la fine della guerra sembra molto vicina, e…».
«No. Basta così».
Gli occhi del giovane partigiano si erano fatti d’un tratto gelati. Si tirò le ginocchia al petto e distolse lo sguardo da quello del suo interlocutore.
«Futuro, futuro, sempre futuro. Perché sentono tutti il bisogno di parlarne in continuazione? Il presente è passato di moda o cosa? Fra lei, quella sua infermiera e mio fratello, non si fa che parlare di quello che succederà, di come succederà e del perché. Non potete provare a vivere adesso, almeno per una volta?».
Il dottore corrugò la fronte. Arturo lo fissò con odio, poi si appoggiò al muro e si portò il fazzoletto macchiato alla bocca. Tossì per un po’, quasi svogliatamente, senza mai distogliere lo sguardo dal soffitto.
Sembrava che fosse adirato con l’idea stessa di futuro, con la parola e con il concetto che rappresentava.
D’un tratto, un verso strangolato risuonò fra le nude pareti dello stanzone. Quando lo riconobbe, a Esteti si gelò il sangue nelle vene.
Arturo esclamò: «Miulino! Vieni qua, discolo!».
L’uomo si volse in tempo per seguire l’arrivo di un gattaccio magro, dalla pelliccia rada e di un colore incerto.
Trotterellò allegramente fino al pagliericcio, per poi sedersi e fissare Arturo in attesa.
Inutile dirlo, Esteti si trovava già dall’altra parte della stanza ed era impegnato a insultare l’ignara bestiola.
Il ragazzo lo guardò con aria divertita e prese in braccio Miulino.
«Che c’è, dottore? Lei, grande uomo di scienza, ha paura di un micetto?».
«Non è divertente» ringhiò l’altro. «Io li odio, i gatti».
«Io invece lo trovo divertente. Vede?».
Sollevò Miulino per mostrarglielo. La bestiola non gradì affatto e prese a divincolarsi fra le sue mani.
«Lui non mi parla di cose che non voglio sentire. Mi viene a trovare spesso, non mi chiede mai come sto e non è ossessionato dal futuro».
Esteti grugnì. «Perde pelo e vomita. Inoltre possiede unghie molto affilate».
«Rimane il fatto che è più simpatico di lei».
Fu allora che Arnaldo capì di non poterne più.
“Perché sono ancora qui, a farmi prendere in giro da questo disgraziato?”, si chiese con rabbia. “Potrei essere in altri venti posti a fare cose più utili, invece sono bloccato in compagnia di un poveraccio infuriato con il mondo”.
Fece per voltarsi.
«Aspetti! Non se ne vada!» gridò improvvisamente il ragazzo.
Miulino gli sfrecciò accanto, spaventato dal rumore, e corse a rifugiarsi in un angolo polveroso.
Esteti si girò di scatto. «Cosa vuoi, Arturo? Desideri forse che ti dica che andrà tutto bene? Mi dispiace, mi dispiace davvero, ma non ne sono capace. Sono solo un uomo, esattamente come te. Non so cosa fare. Abbi un po’ di pietà, per Dio. Non posso cambiare il futuro, né… né ti posso salvare. Mi dispiace».
Arturo impallidì. Si fece più piccolo, come se ogni accusa l’avesse ferito. Con stupore, Esteti si rese conto che sembrava sinceramente dispiaciuto.
«Dottore, io…».
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase. Un nuovo accesso di tosse lo costrinse a piegarsi in due: il fazzoletto si fece rosso in modo preoccupante.
Arnaldo corse a fianco del paziente. Lo aiutò a sedersi dritto contro la parete a gli pose una mano sulla fronte. Stava bruciando come un tizzone ardente.
«Torno subito» mormorò.
Corse a prendere un catino, che riempì di acqua fresca, e uno straccio. Arturo non aveva ancora smesso di tossire, ma gli intervalli fra un attacco e l’altro si stavano facendo gradualmente più lunghi. Nel frattempo ansimava come se stesse per crollare lì, davanti al dottore, incapace di combattere il male che se lo stava portando via. I suoi occhi luccicavano di lacrime e le sue guance scavate avevano ormai perso ogni minima traccia di colore.
Arnaldo deterse il sudore dalla fronte di Arturo finché non smise di sputare sangue, consapevole che non c’era altro da fare se non guardare. Il partigiano era andato troppo in là perché chiunque potesse aiutarlo.
Quando la tosse lo lasciò finalmente in pace, il giovane si accasciò contro la parete e chiuse gli occhi. «Sono vivo» sussurrò. «Incredibile. Sono ancora vivo, dottore?».
La sua voce era sottile come il rumore che fanno i passi nella neve fresca. Forse era solo un’impressione, ma il suo tono sembrava più gentile.
«Respira. Con calma» gli consigliò Esteti. «Cerca di non parlare».
«Volevo solo essere un bravo ragazzo. Volevo essere come mio fratello, e invece guardi dove sono finito».
«Shh! Stai tranquillo».
Arturo aprì gli occhi.
«Volevo essere un eroe, un patriota. Nell’esercito non mi avrebbero arruolato comunque, perché ero già malato quando mi sono dato alla macchia. Stavo solo cercando di aggiungere un pezzetto tutto mio al futuro di cui tutti stanno parlando. Quel futuro nuovo per cui sono tutti così eccitati, quello che continuano a prometterci».
Si prese la testa fra le mani. «Dio, Dio, non riesco a credere che non lo vedrò mai. Non riesco a rassegnarmi. Non voglio farlo».
Il dottore rimase in silenzio per qualche istante. Fece poi la domanda più stupida che gli venisse in mente: «Come mai ti chiamavano Usignolo?».
Arturo sorrise. «Perché certe volte fischiavo mentre respiravo. Sa, la malattia. Allora hanno cominciato a chiamarmi così».
«Capisco».
Il ragazzo chinò il capo.
Solo allora Esteti si rese conto che, nonostante il sorriso non l’avesse abbandonato, stava piangendo.
«Arturo…».
«No. Non dica nulla, per favore» lo interruppe subito lui. «Non voglio la pietà di nessuno. Non mi interessa, né tantomeno mi salverà in alcun modo. Rimanga qua e basta, va bene? Mi faccia compagnia. Ho paura di andarmene e ho il terrore di farlo da solo».
Arnaldo annuì. Miulino li raggiunse con passo felpato, ma il dottore non si mosse.
«Le sembra giusto?» mormorò Arturo. «Le sembra giusto, dottore?».
Lo sguardo di Esteti corse alla finestra lavata dalla pioggia. Non sentiva più il ticchettio irregolare delle gocce; sembrava invece che ci fosse speranza di vedere il sole entro sera.
Si chiese se anche Arturo avrebbe avuto la possibilità di rivederlo. Si chiese perché fra tutti, proprio lui avesse avuto la sfortuna più terribile di finire confinato in questo pagliericcio in mezzo alle montagne. Lui, che a malapena aveva avuto la possibilità di combattere per quel futuro che non avrebbe mai visto.
“Ce lo meritiamo, noi, un futuro scritto da persone come lui? Ce lo meritiamo un futuro disegnato da chi non c’è più e da chi se ne andrà prima di assistere alla fine della guerra?”.
«No» sospirò. «Non mi sembra affatto giusto».
Attese, ma Arturo non rispose. Aveva gli occhi chiusi e la testa gli ciondolava sul petto.
Il cuore di Esteti ebbe un sussulto.
«Arturo?». Scrollò delicatamente il ragazzo, che non ebbe alcuna reazione. Le sue palpebre rimanevano serrate e il suo respiro si era fatto silenzioso. Come… come se d’un tratto si fosse fermato.
«Arturo!». Arnaldo aveva perso il controllo. Scuoteva il giovane come un marionetta, sempre più disperato a mano a mano che il dubbio diventava certezza.
«Ah!» esclamò quello, aprendo gli occhi all’improvviso. «Te l’ho fatta!».
Si rimise faticosamente a sedere contro il muro, senza smettere di ridere.
«Non riesco a credere che l’ho davvero fatta al grande dottor Esteti!».
Arnaldo si accasciò sul letto. «Non farlo… mai più» ansimò.
Arturo gli assestò una debole pacca sulla spalla.
«Tranquillo, dottore. Non credo nemmeno che ne avrò il tempo. Anzi, me lo farebbe un favore?».
Ancora senza fiato, Arnaldo annuì.
«La prossima volta che vede il Falco Pescatore, gli riferisca che il suo fratellino gli dice buon divertimento. Ah, mi aiuti anche a mettermi sdraiato, già che c’è. Queste chiacchierate con i medici mi fanno venire sonno».
Esteti obbedì. Arturo si tirò subito le coperte fino al mento e lanciò un’occhiata fuori dalla finestra.
Strizzò le palpebre, come se stesse guardando qualcosa di particolarmente luminoso. Miulino gli saltò sul petto e seguì la direzione del suo sguardo. Anche Arnaldo lo fece, perplesso come non mai, ma tutto ciò che vide furono le goccioline appiccicate al vetro e il cielo azzurro che brillava attraverso di esse.
«Cosa state guardando?» era tentato di chiedere loro.
Ma Arturo sembrava stanco, veramente stanco, forse troppo per dargli una risposta. Arnaldo non se la sentiva di disturbarlo. Così rimase là, seduto al suo fianco, ascoltando un canto di usignolo che, malgrado il futuro si stesse avvicinando a velocità grandiosa, si stava facendo sempre più debole.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni