Brüder, über’m Sternenzelt
di Sara Ronzoni
Terzo premio
Vienna, 17 luglio 182…
Mia Immortale Amata,
lascio quest’antro di lugubre tristezza e arrivo da te. Solo pochi minuti, pochi attimi, pochi singhiozzi e ti riavrò fra le mie braccia come ti ho avuta sempre col cuore. Tu sai che la mia vita tutta è in quel bocciolo che hai in seno; quella gemma dorata e splendente che presto avrò il privilegio di accarezzare, posando il palmo della mia mano sul tuo ventre gonfio, quando ne avrai bisogno. È la mia vita, la mia vita travagliata che mi spinge a desiderare sempre dell’altro; non so ben specificare cosa, o perché, o dove voglia arrivare. Tu lo sai, tu mi capisci; già l’estate scorsa ti dissi che il mio cuore traboccava di quell’immenso sentimento che ora porti in te fra le tue carni benedette, o Amata, e fra quelle tue braccia tanto gracili quanto forti e robuste.
Abbandono quest’angolo spigoloso e ignobile, mia Anima, e sono subito accanto a te. Sul letto, come facevamo una volta, quando tu respiravi insieme a me, quando tu mi donavi quei tuoi sorrisi dolci e festosi, quando facevamo l’amore e quando ci guardavamo negli occhi, in silenzio, senza dir nulla. Eppur non basta. Quel vuoto, quell’angoscia ansimante che mi anima il petto non m’abbandona, e anzi si nutre di me come una fenice che muore e rinasce dalle sue stesse ceneri; e come una fenice io m’aggiro fra i cieli grigi di questa città così distante dal mio cuore, e non desidero altro che il bagliore del tuo sorriso, la realizzazione di ciò che abbiamo deciso insieme; e ancora i progetti, e i desideri, e la voglia di portare il tutto a termine con te, solo con te, al mio fianco. Amata, cos’è il desiderio se non l’espressione più alta e nobile dell’animo umano? Cosa siamo noi se non desiderio? Noi arriviamo dalle stelle, e là, là io voglio arrivare. Mi comprendi, ne sono sicuro. Ed è naturale desiderare la Luna, e il cielo, e le stelle, e i satelliti di Marte, Giove e Saturno se si alza lo sguardo al cielo e si spalancano gli occhi, aperti su un’alba di luce. Ma io, quell’alba, non la vedo. La mia vita è densa densa di tanto languore quanto di peccato; vivo nell’angoscia e nella speranza che qualcosa cambi; vivo nella costante speranza che questa maledetta guerra finisca, che si riporti stabilità in questa nazione tanto amata da Dio quando odiata dagli uomini, che ogni assillante pensiero conosca finalmente termine e sepoltura.
Spero tanto e vedo poco. Il mondo mi appare così cieco, mentre io, sordo, non lo ascolto. Nessuno parla: si favoleggia sulle imprese di Napoleone, eppure a questo ci ha portato: alla morte, alla distruzione, al disagio per la stessa vita, e per questo io temo, o cara, che la vita di nostra figlia possa essere travagliata e indifesa. Cosa può un uomo contro il tanto diffuso senso di timore? Dimmi, dimmi che anche tu temi, dimmi che anche tu desideri, dimmi che anche tu speri. Mio fratello morì durante gli anni dell’Armata d’Italia; non nelle milizie austriache, bensì nell’esercito del popolo; quello nostro, quello che lavora e si fa venire il sangue cattivo tutto il giorno, quello che spera e che si sacrifica pur di mantenere la propria famiglia, quello che è la vera vittima delle guerre che si combattono tutti i giorni contro la fame, l’ingiustizia, l’ignoranza, le imposizioni.
Mia Amata, temo di temere. Temo di non essere stato assemblato da Dio nel modo più corretto per stare in questo mondo infausto e languido e falso come il sorriso degli uomini che funzionano, nulla più. Io, Amata, io voglio vivere la mia vita come se fosse un inno di gioia perpetuo, che si dipana e s’affligge sulle menti dei miscredenti che non hanno ancora osato alzare gli occhi al cielo e domandare a Dio, alle stelle e alla Luna di essere felici. Sordo, sordo, sordo son io; le uniche note che conosco sono lo strimpellare del mio fortepiano e la voce piangente della terra che soffre e che grida aiuto. Amata, mia Immortale Amata, non siamo altro che fantocci di carne e d’ossa che s’avventurano fra i meandri dell’esistenza; siamo sangue, corpo e vita sospesi a mezz’aria, sospesi da un doloroso travaglio che ci divora le viscere e la luce della nostra speranza; siamo ombre di marionette che s’agitano nell’aria nebbiosa del dubbio tentando di strappare i fili di quello che è il nostro destino.
Mi ritengo un viandante; spesso passeggio per i boschi attorno questa città, lontano da tutti, dalla noia, dal chiasso, dall’infrangersi degli zoccoli dei cavalli contro il selciato. Vedo i miei piedi muoversi passivamente, come se fossero guidati da una forza più potente che è la mia voglia di vivere lontano da ciò che siamo diventati in millenni, ovvero macchine che hanno legamenti e cartilagini al posto di bulloni e viti, ma la cui testa è un gioco di società, dove non importa l’intelligenza e l’onestà quanto l’astuzia. A volte rimpiango di non essere vissuto fra quelle tribù dell’America settentrionale che vivono in armonia con se stesse e con la natura. Noi europei li abbiamo declassati, etichettandoli come rozzi e incivili. Ma chi è più incivile? L’uomo che non è felice e non è più se stesso può ancora essere definito uomo? E io, che sono?
Oggi come allora ho sempre voluto cercare la perfezione in ogni cosa: avevo quattordici anni quando diedi il mio primo concerto, ho sempre impegnato tutto me stesso per raggiungere il mio scopo, mi sono concesso totalmente anima e corpo alla Signora Musica; ho cercato l’infinito, in quelle notti d’estate, quando sfuggivo alle percosse di mio padre, lasciando scappare ogni mia ansia, ogni mio dubbio, ogni mio sospiro. In quei momenti c’eravamo solo io e l’infinito universo sopra di me. Un manto etereo, denso, scuro come l’inchiostro che spargevo sui fogli accanto al clavicembalo sempre trasudanti di note e chiavi. Io, io ero vivo. Io avevo la perfezione dentro di me a tal punto che, se solo avessi sollevato un poco il braccio e alzato un poco il dito forse avrei sfiorato quell’aria celeste della sera. Era tutto un sogno, io ero tutto un sogno; ero il sogno di me stesso e di questa triste Terra, un sogno che sgorgava dal cuore che tenevo celato in petto ma che di fronte all’assenza di limiti s’apriva come una conchiglia che dona al mare azzurro la sua perla a lungo custodita fra le viscere.
Mia Amata, ora so che la mia perla è andata perduta, spazzata dalle feroci onde selvagge di quel brusio invidioso che mi nausea le orecchie. Non sono solo sordo; tutto e tutti m’hanno reso cieco, a tal punto ch’io non posso vedere nulla se non una sottile nebbia che aleggia attorno ai miei occhi e alle mie orecchie. Non ricevo commissioni da tempo e passo le giornate componendo per me stesso, senza mai racimolare un soldo; vago per i sentieri e le strade della città portando sempre con me un piccolo taccuino e una misera matita con una punta consunta dal tempo e dall’usura, che tuttavia mi permette di comprendere ciò che gli altri pronunciano; e, dal momento che non odo, prego coloro che vogliono rivolgersi a me di scrivere il tutto sui miei foglietti. Odo soltanto il mio cuore che batte, così come odo il suono silenzioso della solitudine delle notti piovose che passo al fortepiano.
Da te non attendo alcuna risposta, bensì pensieri; pensieri che posso ascoltare con l’eco della mia testa sempre in subbuglio, pure in piena notte. L’altro giorno, per esempio, passai l’intera nottata sotto il porticato del giardino; non udivo nulla. Toccavo con la pelle del viso i bianchi raggi di quella Luna vergine e marmorea e mi rammentai della mia giovinezza di ragazzo perseguitato dall’ombra del padre, quando ero ancora desideroso di successo, fama, potere. Un potere incontrastato che si immolava per me ogni notte, quando sfuggivo all’ombra violenta e ubriaca di mio padre e saltavo fra un tetto e l’altro, con le braccia aperte per mantenere l’equilibrio e il cuore leggero e veloce, muovendomi a scatti come fa un lupo quando insegue la sua preda. E la mia preda era la vita; volevo morderla, la vita; volevo afferrarla, stamparle sulle labbra un grosso bacio mentre le strappavo i vestiti di dosso e ci facevo l’amore. Correvo, e più correvo più ritrovavo i fulgidi cocci di me stesso fra le gocce di rugiada della radura e fra i miei riflessi che s’univano con le dolci, piccole onde della palude. E poi m’addormentavo sotto quegli agglomerati di polvere celeste che da miliardi di anni non si stancano di fiammeggiare, come lucciole infuocate, nell’infinito cielo che stava sopra di me. Io, col cielo, ci facevo l’amore ogni notte. Mi stendevo sull’erba bruna della Luna, adagiando perfettamente ogni curva della mia figura sulla superficie della collina; tremavo, sentivo le mani del vento notturno che mi ammaliavano con le loro carezze. Sentivo le vesti leggiadre spostarsi nella notte, vagare lontano, così da lasciare solo il mio cuore sopra quel manto erboso. I sospiri emergevano pian piano da ogni piaga della mia pelle, i dolori svanivano, mi sentivo rinascere mille volte, intensamente, come la prima volta che vidi la luce del sole coi miei occhi. Ogni volta che rivolgevo lo sguardo al cielo rinasceva in me l’anima che avevo perduto coi peccati, colle illusioni, coi dolori e le angosce della mia vita. La notte mi penetrava il cuore come il pensiero di te, mia Amata, mi trapassava costantemente lo spirito che si celava nel mio corpo. Rimanevo così, immobile, trafitto da un senso di gioia inesprimibile, di infinito stellato, di quell’amore che avevo riversato per tutta la vita verso quei due oggetti che avevano goduto del mio sangue; il cuore del mio cuore e l’alma dell’alma mia. Mi promisi, allora, che quando avrei raggiunto la maggiore età, quando avrei capito come vanno le cose del mondo, avrei donato la mia scrittura intera alla gioia che mi aveva trapassato il cuore in quell’istante infinito.
Mia Immortale Amata, ora so cosa significa ricercare la propria vita; io non la ricercai, io la scrissi. Non coi gesti, ma con l’inchiostro. Non con la voce, bensì con quei pallini neri che s’adagiano sulla carta rigata e giallognola e tanto costosa; diedi lustro alla vita degli uomini e del mondo che sarebbe venuto dopo di me, regalando all’umanità quella tanto attesa felicità che rende gioiosi i cuori e che porta in alto, verso il Paradiso, gli animi delle genti. E, ammetto, non fu semplice; impiegai mesi, giorni, secondi a plasmare quell’opera che sarebbe stata il coronamento dei miei sogni di ragazzo spensierato e innocente. Doveva essere una musica perfetta, una scrittura armoniosa tanto prorompente da far cantare gli occhi dei miei compagni su questa Terra, da far esplodere i loro desideri proiettati ormai verso una vita vera, felice, realizzata in ogni sua parte. Sarebbe stato un inno alla gaiezza cui è naturalmente portato l’uomo.
Una notte appoggiai le guance alla tastiera, carezzando i tasti col viso, nella speranza di ascoltare quella voce che tanto amavo sentir ribollire fra i pensieri della mia testa e che passava dal legno del fortepiano ai miei polpastrelli tremanti. Mia Amata, posso giurarlo, posso giurarlo su nostra figlia; le mie orecchie si riempirono di suoni tanto celestiali quanto eterni, sereni e casti, simili alla voce dei cherubini che guardano negli occhi di Dio. E le parole – oh, quelle parole! – mi furono sussurrate in un soffio, in un respiro d’ali che mi fece vacillare per un poco. Ero sordo, eppur le porte dei miei vecchi timpani si erano spalancate a quella melodia che avrei trascritto subito, di getto, senza mai fermarmi, senza mai desiderare una fine, così come non si desidera mai la conclusione di un momento felice. Le parole che mi erano state sussurrate si dipanavano in tutto me stesso, abbandonandosi alla musica ch’io avevo trascritto; mi parve di vedere abbracci di fratellanza fra le singole sillabe e le crome della mia scrittura.
Tu ricordi, rammenti la prima esecuzione di quella musica. Era una sinfonia. Cinque movimenti non troppo regolari. Impeto. Tempesta. Sorpresa che aleggiava fra il pubblico e io, nascosto nell’ombra del teatro, seguivo con lo sguardo i gesti del direttore, che agitava le braccia indossando una curiosa espressione crucciata sul viso paonazzo. Vidi gli archetti dei violinisti sdrucciolare note sulle corde come vento che spazza le foglie degli alberi in autunno. Vidi i cornisti coi loro possenti strumenti d’ottone che splendevano alla luce delle candele, traballanti al fiato del coro. Il coro. I cantanti. Le voci in una sinfonia. Lasciai il mio spazio buio, salii sul palco e alzai gli occhi al cielo; e di nuovo vidi quel cielo stellato ch’io avevo amato da ragazzo, quel cielo dove danzavo ogni notte, saltellando da una stella all’altra. Vidi quel manto che ricopre la Terra e le acque e noi uomini animato dalle voci angeliche e sublimi di quelle moltitudini che hanno raggiunto il traguardo dei loro desideri. La Gioia cantava: Brüder, über’m Sternenzelt. Fratelli, sopra il cielo stellato.
Mia Immortale Amata, io mi rammento ch’io caddi, e non mi rialzai più. Caddi, e caddi felice. Piombai a terra con un tonfo sordo, sordo come ero stato sino a quel momento. Caddi, e m’alzai verso la Gioia eterna. E non attendo alcuna lettera in risposta; mi basta la tua esistenza, e il pensiero di te che mi accompagna.
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