Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
16ª edizione - (2013)

Aspettative
di Chiara Castelli
Secondo premio

Non sono mai stata una di quelle persone brave con la razionalità e compagnia bella e nemmeno con l’empatia, se devo proprio dirla tutta.
E ok, lo ammetto, neanche con l’introspezione e con la comunicazione verbale e con quella non verbale e con i rapporti sociali e con le persone.
Beh, diciamo che non sono mai stata una di quelle persone brave nelle cose in generale.
A ogni modo, seppure queste fossero le mie condizioni di partenza, quel giorno, proprio quel lunedì mattina, fu diverso. Lo sapevo fin da subito, che sarebbe stata una giornata speciale. Quella mattina, ricordo bene, mi svegliai alquanto sonnecchiante, feci colazione con tè e biscotti, scartando quelli spezzati; andai in bagno, nel mio bagno ricoperto da quelle terribili piastrelle verdognole quadrate che è da anni che voglio cambiare e non ho mai cambiato; indossai i miei jeans rigorosamente a sigaretta, la mia camicetta rigorosamente sbracciata, e il mio maglioncino rigorosamente marrone; mi pettinai i capelli, con il ciuffo a destra e la coda di cavallo per poi guardarmi allo specchio e demoralizzarmi perché, dannazione, lo sapevo che non avrei dovuto mangiare tutto quel cioccolato e, ri dannazione, lo sapevo che sarei dovuta andare a correre almeno una volta alla settimana, o al mese, o all’anno, o almeno una volta in generale.
Poi presi la mia borsa, una tracolla marrone che avrà come minimo una decina d’anni e li porta pure male, e uscii di casa per andare alla fermata dell’autobus.
Come misi piede fuori di casa, sentii lo scrocchiare delle foglie sotto ai miei piedi.
Era autunno.
Ah, ho sempre amato tutto dell’autunno! Tranne le cimici, quegli esserini mi danno un gran fastidio. E i ragni, oh, i ragni sono ancora peggio. E i maglioni che pizzicano. E la pioggia, mi arriccia sempre i capelli. E il fatto che non ci siano fiori. E le pubblicità di Natale che, diamine, perché iniziano sempre così presto solo loro lo sanno. E le giornate che si accorciano. E il freddo.
Va beh, diciamo che l’autunno mi è sempre piaciuto relativamente.
Comunque, seppure quelle fossero le mie condizioni di partenza, e seppure fosse autunno, mi diressi con passo sostenuto verso la fermata dell’autobus perché (come ogni mattina di ogni giorno di ogni settimana di ogni mese di ogni anno della mia vita) ero drasticamente in ritardo.
Accidenti. Diamine. Dannazione. Quel giorno, l’autobus mi passò davanti sfrecciando senza nemmeno fermarsi, mentre l’autista, con quella sua faccia da ebete, quella dannatissima faccia da ebete, mi sorrideva divertito. (Nel caso tu stessi leggendo, sappi che ti odio, autista, quasi quanto odio sentire il mio vicino di casa che russa quando il giorno dopo ho una riunione importante!) A ogni modo, seppure quelle fossero le mie condizioni di partenza, seppure fosse autunno, e seppure io avessi appena perso il pullman, lo sapevo, oh sì, lo sapevo che sarebbe stata una giornata speciale.
Dopo ben venti minuti arrivò il secondo pullman, quello delle 8.10.
L’autista dell’autobus delle 8.10 è una donnona tarchiata sulla cinquantina che, se non fosse per quella foto del suo matrimonio che tiene appiccicata sul volante e di cui va tanto fiera, in cui indossa un alquanto improbabile vestito lungo bianco pieno di pizzi e compagnia bella, potrebbe tranquillamente essere scambiata per Vin Diesel. Le fui riconoscente per essere sempre gentile, e, soprattutto, per non avere una dannatissima faccia da ebete. Dopo qualche fermata aprii la borsa e cercai il telefono per controllare l’orario: erano le 8.20.
Dannazione, avrei dovuto saperlo. Mi sarei dovuta svegliare prima, sarei dovuta uscire di casa prima, prendere il pullman dell’ebete e sopportare quella sua dannatissima faccia. Sarei arrivata senza dubbio in ritardo, già lo sapevo, e Alberto Arsi, che da quando è diventato caporeparto ha miracolosamente acquisito l’autostima di Elisabetta II, mi avrebbe di sicuro assegnata al reparto bambini. In caso tu te lo stessi chiedendo, il reparto bambini è, nella nostra biblioteca, l’angolino dell’ignominia. Ma non ti dirò altro, capirai tu stesso quando arriverà il momento.
Finalmente la mia fermata arrivò. Controllai ancora l’orario, sperando in un intercessione divina, ma niente: 8.45.
Accidentaccio, accidentaccio! Angolino dell’ignominia, sto arrivando!
Varcai la porta della biblioteca e, ding!, come previsto, eccolo lì di fronte a me, mentre si gustava un caffè, un maledettissimo caffè da caporeparto, e mi osservava con aria di superiorità.
«Molini, vedo che ha preso a cuore il reparto bambini. O sbaglio?»
“Che gli dei possano bruciarti il materasso, Arsi!” «Ho perso il pullman».
«Non mi sembra di avertelo chiesto».
“Bruciarti il materasso e fare in modo che la tua casa venga invasa dagli scarafaggi, farabutto!”
«La caffeina ingiallisce i denti, Arsi». E me ne andai nel reparto bambini.
Come misi piede in quel reparto, la morte mi pervase un pochino. Una mandria di piccole creature impazzite vagava per la stanza sparpagliando tutti i libri per terra, emettendo degli urli che mi sono sempre chiesta perché mai non fossero giuridicamente vietati, mentre i genitori, alcuni con più successo di altri, cercavano di farli star seduti a leggere qualcosa.
Comunque, seppure quelle fossero le mie condizioni di partenza, seppure fosse autunno, seppure avessi perso il pullman, e seppure fossi finita nel reparto dei bambini, quella giornata sarebbe stata speciale, lo sapevo.
Mi avvicinai con il cuore pieno di desolazione al bancone, e mi rincuorai un poco quando vidi Paolo Salvi, il novellino, intento a registrare con quelle sue manine pallide e lentigginose alcuni libri di fiabe a un papà che, probabilmente, aveva appena perso d’occhio la figlia in quel caotico campo di battaglia.
«Buongiorno Salvi, ancora problemi con il gatto?».
«Esatto. È stato male e ho dovuto portarlo dal veterinario…». Si passò una mano tra i capelli rossastri, e poi aggiunse: «Tu? Ancora il pullman?».
«Esattamente, Salvi. Esattamente».
Il padre finì di registrare i libri, ringraziò Paolo, e si infilò in un improbabile groviglio di bambini intenti in una chissà che pratica spiritica, uscendone con tre creaturine iperattive appese alle gambe. Si diresse verso la porta, e ne uscì in quelle condizioni.
«I miei gatti sono molto meglio di questi piccoli demoni».
«Gatti? Pensavo ne avessi solo uno».
«Sì, beh… me ne ha regalato un altro mia madre per il mio compleanno».
«Capisco».
In caso te lo stessi chiedendo: sì, il ragazzo è un po’ strano. Come un po’ tutti, d’altronde.
Il tempo passò molto lentamente, ma, finalmente, arrivò l’una del pomeriggio. L’una del pomeriggio significava sostanzialmente una cosa sola, una cosa che rendeva tutti più radiosi, il cielo più azzurro e i fiori più profumati, una cosa che avrebbe potuto persino far sembrare simpatica la dannatissima faccia da ebete dell’autista delle 7.50: la chiusura del reparto bambini.
Ci alzammo esultando, mentre una mamma trascinava via di peso gli ultimi due bambini rimasti. Finalmente era finita! Mi ripromisi di puntare la sveglia almeno un’ora prima, il giorno dopo. Ovviamente non lo feci, ma questa è un’altra storia.
Mettemmo a posto tutti i libri, quando, alla fine, capii che era giunto il momento di fare quello che sapevo di dover fare. La mia giornata stava per diventare speciale. Stavo per lasciare da parte le mie incapacità di relazione, l’odioso autunno che mi circondava, la faccia odiosa dell’autista delle 7.50, Arsi, e il reparto bambini.
Presi la borsa, e mi diressi verso l’uscita.
«Salutamelo, Greta. Mi farebbe piacere».
«Grazie, Paolo. Lo farò senz’altro!».
Seppure Salvi sia un ragazzo un bel po’ strano, è anche una persona molto gentile quando vuole.
Gli sorrisi, presi un libro dallo scaffale, e mi abbottonai il cappotto uscendo alla luce del sole.
Presi Il giovane Holden, quel giorno. Era il tuo preferito, lo sapevo. Me l’avevi detto la prima volta che eravamo usciti insieme, cinque anni fa, dopo che ci eravamo conosciuti alla fermata dell’autobus. Oh, dannazione, me lo ricordo come se fosse ieri! Ti avevo detto che amavo la fotografia, e mi avevi portata a una mostra di Doisneau, quel geniale fotografo che si appostava per fotografare l’espressione della gente in diverse occasioni, ma che oggi viene ricordato quasi solamente per la foto dei due innamorati che si baciano all’Hotel de Ville di Parigi.
Amai già fin dal primo momento quei tuoi capelli scuri, quei tuoi occhiali spessi dietro cui si nascondevano i tuoi grandi occhi azzurri. Amai fin da subito il fatto che leggessi sempre, e che lo stessi facendo anche quel giorno alla fermata dell’autobus. Ma quella mostra fu proprio la goccia che fece traboccare il vaso. La nostra storia, per me, iniziò allora.
A ogni modo, presi Il giovane Holden e mi preparai a incontrarti. Mi avviai a passo svelto per la strada, quando, ecco, vidi il portone giusto. Il cuore mi balzò in gola: non c’era volta in cui non mi capitasse, quando finalmente potevo vederti.
Entrai chiudendolo alle mie spalle, e salii le scale. Ti sarebbe piaciuto Il giovane Holden, o avresti preferito qualcos’altro? Mentre me lo chiedevo arrivai alla tua porta.
Feci un respiro profondo, e alzai un pugno per bussare.
«Entra, Greta!» mi avevi preceduto, anche quel giorno.
Lo facevi sempre, anche se non ho mai capito come facessi. Aprii lentamente la porta, sorridendoti lieta quando ti vidi lì, davanti a me.
«Marco, amore! come stai oggi?» chiesi, mentre mi sedevo sul tuo letto, e ti passavo una mano sulla guancia destra, pallida e ossuta. Avevi perso un sacco di peso, lì dentro.
«Non mi lamento».
Con la testa abbandonata all’indietro sul cuscino, mi guardasti con gli occhi semichiusi e stanchi.
«Sei bellissima».
Ti baciai la fronte, calva, e ti strinsi la mano. Rabbrividii nel sentire quanto fosse fredda, e ti diedi un bacio anche sulle labbra livide.
«Ti saluta Salvi».
«Quel maledetto! Vuoi forse farmi ingelosire?».
«Ingelosire? Ma come, pensavo fosse ormai chiaro che preferisco lui a te!».
Sorridesti.
«Comunque, indovina cosa ti ho portato oggi?» ti dissi, tutta elettrizzata, sperando di farti una bella sorpresa.
«Il giovane Holden?».
Mi spiazzasti. Probabilmente assunsi una faccia particolarmente avvilita, perché ti sentii ridacchiare debolmente.
«Se fai quel faccino mi trafiggi il cuore» mi dicesti.
«Ma come fai a indovinare sempre? Uffa, comunque sì, è Il giovane Holden.» ti dissi, tirando fuori il volume dalla borsa.
«Sei contento? Avresti preferito qualcosa d’altro?».
«Sono sempre contento quando ci sei tu».
Fosti tu, a trafiggermi il cuore. Mi stringesti la mano e poi mi chiedesti di iniziare a leggere.
Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io… Sorridesti, chiudendo gli occhi, e continuando a stringermi la mano.
Ti amavo, per davvero. Quello era il momento della giornata che, ogni giorno, aspettavo più di tutti. Il momento in cui potevamo ancora stare insieme, nonostante fossimo circondati dalle mura di quel maledettissimo ospedale, e nonostante i tuoi globuli bianchi ti stessero lentamente distruggendo.
Dopo una decina di pagine, sentii il tuo respiro farsi più pesante, e capii che ti eri addormentato. Chiusi il libro, lo appoggiai sul comodino di fianco a te, assieme alle medicine, e ti baciai di nuovo la fronte. Poi mi accucciai di fianco a te, sul letto, appoggiandoti la testa sul petto, ossuto e fragile.
Era splendido sentire la tua pelle a contatto con la mia. Era splendido sentire il tuo calore, quel poco che il tuo corpo ancora si permetteva di emanare. Era splendido sentire il battito regolare del tuo cuore. Era splendido sapere che, ancora per un momento, ancora per un giorno, saresti stato con me.
E fu proprio allora che capii che l’unica cosa che avrei voluto, non era diventare una persona diversa, capace di gestire i rapporti sociali e le interazioni con il mondo; non era prendere l’autobus in tempo, o fare in modo che quella dannatissima faccia da ebete dell’autista delle 7.50 scomparisse per sempre dal pianeta Terra; non era avere un anno fatto solo di tre stagioni e non era nemmeno evitare per sempre di ritrovarmi assieme a Salvi nel reparto bambini.
No, l’unica cosa che avrei voluto, più di qualsiasi altra cosa al mondo, era poter avere anche solo un altro giorno, un altro minuto, un altro istante, da poter costruire insieme a te.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010