Sulle linee infinite dei binari del treno
di Eleonora Sacco
Primo premio
Alcune persone si precludono un futuro per imposizioni tanto tradizionali quanto insensate. Pur nella monotona abitudine, però, non bisogna escludere che un fatto casuale e inaspettato possa cambiare l’ampiezza del nostro orizzonte, rivelandoci nuove rotte e spalancandoci cieli di possibilità. Anche se, a volte, per trovare le risposte giuste basta voltare l’angolo.
Questa storia parla di una terra che sa di limoni e della generazione dei miei bis, o bis bisnonni, che non solo non aveva futuro, ma non sapeva nemmeno cosa la parola volesse dire, e forse questo l’ha resa molto coraggiosa.
Il vecchio conosceva a memoria tutti gli orari del treno.
I suoi familiari avevano da sempre coltivato quelle terre a limoni e rosmarino. Quando arrivò il 1872, in paese si iniziò a parlare di un progetto colossale, che avrebbe sconvolto le loro vite: una ferrovia che inghiottiva gli arbusti e scavava le montagne, sfidando a corsa le onde che si infrangevano sulla scogliera. Nessuno ci capiva niente, non sapevano nemmeno leggere, gli ufficiali diedero loro due lire ed espropriarono gli appezzamenti. Rimasero con un lembo di terra e una staccionata di legno, che tracciava il confine con il binario due.
Il vecchio era sempre stato vecchio.
All’epoca la sua stirpe aveva accolto l’esproprio come un segno del destino. Belin! Belin! Gli altri contadini se n’erano a poco a poco andati a lavorare in cantiere a Genova o a La Spezia, ma lui era rimasto lì: la ferrovia era diventata la sua vita. Con gli anni i capelli e gli occhi avevano preso il colore della ruggine, a furia di guardare quelle due rotaie che collegavano il suo piccolo borgo al continente. Le mani erano ormai secche e ruvide come le pietre tra una traversina e l’altra, i gomiti e i ginocchi erano rossi e spigolosi come bulloni, e la sua lingua raccontava solo storie di marinai, whisky e tabacco d’importazione. Quand’era ubriaco parlava delle sirene del promontorio, che avevano i seni come delle arance mature. A volte gli sfuggiva qualche particolare sulla sua terra di agrumi e arbusti, chiusa e arroccata su se stessa, un po’ sporca e incrostata di salsedine. A volte le storie le raccontava in quattro lingue, per frasi fatte: Do not cross the railway lines – Défense de stationner sur la passerelle – Rauchen verboten – Posto riservato ai mutilati di guerra.
Le case del borgo crescevano colorate una sopra l’altra a panni stesi e cornici delle finestre, mentre la locomotiva passava e ruggiva sputando vapore fumo fuliggine calore, spaventando i mocciosi che giocavano a pallone sui sassi della riva.
Il vecchio era invece sempre rimasto affascinato dalla ferrovia. La vedeva come un prodigio, così continuava a coltivare il suo fazzoletto di terra, a bagnare origano e salvia lungo la staccionata, tra un arrivo e l’altro.
L’orologio della stazione era totalmente arrugginito da decenni, le lancette si erano fermate; il vecchio voleva credere che questo allungasse i suoi momenti piacevoli, come le nottate al bordello in cima alla montagna. Un tempo era stato una caserma militare, poi abbandonata e occupata dalle prostitute; nessuno aveva più avuto voglia di staccare l’insegna all’ingresso. Era fatto delle stesse pietre e degli stessi intonaci, scrostati e sbiaditi, dei palazzi regali della grande città; il vecchio ci andava spesso, per sfogare un rimpianto – avrebbe voluto prendere il mare e vivere con le sirene che si pettinano i capelli con le conchiglie, ma non poteva abbandonare la sua terra e la ferrovia – e per trasgredire la monotonia della sua vita, scandita dal fischio del capotreno e dal fiorire della limoncina. Prima, un salto in osteria per un amaro al carciofo e due chiacchiere col capitano – le mareggiate, la pesca, i venti – poi, l’abbraccio soffocante della più grassa di tutte, quella con il grembiule rosa.
Era sempre stato con la sua ferrovia: quando ogni primavera davano il gesso, quando ogni inverno spalavano la neve, quando anche l’ultima valigia dei torinesi in ferie aveva toccato il suolo, quando anche l’ultima lombarda, alla fine di settembre, era salita sul regionale un po’ più abbronzata, con due pacchi di focacce al rosmarino sotto il braccio.
Contava i passi che toccavano quella terra per la prima volta, contava gli oggetti persi in stazione e li collezionava in un mobile che aveva intagliato lui, da un ulivo morto: la teca era un finestrino di treno rotto.
Nessuno sa quanti anni avesse. L’età, il vino e la zappa lo seccavano e lo rendevano sempre più nodoso.
Un tardo pomeriggio di aprile sedeva sulla sua staccionata di legno e cordami, le labbra spaccate dal vento e il sangue in grumi sui denti, aspettando il regionale veloce che arrivava da Milano.
Alle 17.42 vide la cinghia luccicante di uno zainetto di cuoio toccare la banchina, poi i tacchi scendere il gradino del treno, infine le calze di rayon con la cucitura proiettare una lunghissima ombra sui binari. Quella sua catenina d’oro aveva riflesso il sole del tramonto a intermittenza, tra una galleria e l’altra; a Milano suo fratello le aveva bucato le orecchie con ago e limone.
Al tempo le cittadine occhi chiari e gonnella ammaliavano terribilmente gli abitanti del posto. L’ultima volta che il vecchio aveva visto una figura simile aggirarsi da quelle parti rincorreva ancora i gatti nei vicoli bui, alla domenica aiutava lo zio a tagliare le canne di bambù, su alla segheria, finché la luce rossa dell’ovest e il dialetto della mamma non lo richiamavano a casa per la zuppa.
Il profilo di lei gli spaccò definitivamente il labbro, come un pezzo di vetro.
Non l’aveva mai fatto, di giorno, ma la tentazione fu troppo forte: nulla lo frenò. Abbandonò la ferrovia. Diserzione, diserzione! Saltò la staccionata, sfuggì alle fauci della locomotiva che passava, superò i binari e si lanciò giù per le scale, inseguendola. Le sue gambe ossute diventarono pistoni roventi, corse inseguendo quella figura che sfuggiva tra la folla. Bum. Era un treno senza macchinista. Ormai era sua, se lo sentiva martellante in gola. Stava camminando con la sorella sotto i pini di mare, quando lui le si piantò davanti, guardandola fisso. Non si dissero né i nomi né l’età, tacquero entrambi; il vecchio le portò la borsa fino alla locanda. Lei salì con la sorella, e lui rimase ai piedi delle scale, guardandole salire. Era bastato un attimo a fargli dimenticare gli occhi suini delle prostitute, i loro avambracci obesi, le loro dita sporche di grasso animale e sudore.
Cercò le sue mani sottili nelle finestre illuminate della sera, la aspettò sotto la grandine e sotto il sole delle due pomeridiane per giorni, ma lei non uscì. Aveva già progettato di ristrutturare e ampliare la catapecchia vicino alla ferrovia, aveva già scelto la data delle loro nozze, aveva già deciso che la primogenita si sarebbe chiamata Elettra. Aveva pensato che gli sarebbe piaciuto piantare un albero di limoni per ogni nipote. Aspettava, sapeva che prima o poi sarebbe uscita e che sarebbe diventata sua moglie (la sorella sarebbe tornata a Milano da sola). Aveva vissuto di più in quei giorni passati aspettando, seduto sotto il portico, che in tutta la sua vita senza tempo, di arrivi e partenze mute, senza il ticchettio dell’orologio della stazione. Sarebbe dovuta scendere. Prima o poi. Non poteva non scendere. Doveva scendere per forza. Sarebbe davvero rimasta lì dentro per sempre? Certo che no: lei l’aveva visto di sicuro, stava lì ormai da settimane. Le aveva pure lanciato i semi di limone contro il vetro della finestra: era la sua, ne era certo.
Cedette, entrò in quella locanda d’aspirazione borghese e chiese delle due ragazze: l’oste non seppe rispondere.
Si arrese. Decise che non gliene importava più. Lui ci aveva provato, ed era andato tutto inspiegabilmente storto: ma di chi era la colpa? In fondo anche l’amore è solo un gioco, quando perdi.
Tirò su la camicia sporca e cominciò a camminare sul pavé del borgo, contando gli aghi di pino nelle pozzanghere, succhiando un limone come se fosse dolcissimo. Lo irritava, più che la delusione in sé, il non poter ancora capire. Si fermò a contare le anatre in volo pensando alla sua vita, alla sua terra. E quella terra, di ulivi e scogliere, era lui. Ma ancora non capiva. Quella ventata d’aria nuova, cittadina, aveva fatto crollare il mondo in cui lui era sempre vissuto, in cui aveva sempre creduto. La ferrovia in quel momento era solo la ruvida reminiscenza di una vita di vecchio infante senza tempo, senza parole, senza futuro: un giovane foulard profumato aveva scavalcato un universo, una vita, dissipando, in pochi secondi, abitudini, chimere, rimpianti.
E se anche ora fosse tornato, non sarebbe stata più la stessa cosa.
Se ne sarebbe andato, ma non senza sapere. Avrebbe seguito le linee infinite dei binari del treno, ossidati come le sue efelidi, verso altri mondi, altre rotte, altri orizzonti.
S’incamminò su una strada diversa. Fece il giro dell’isolato: solo allora vide che la locanda aveva un’uscita sul retro.
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