Alla cattedrale
A Crealla, un paesino di case fatiscenti arrampicate su un altopiano della Valle Cannobina, Nina sta osservando le fronde degli alberi accarezzate dal vento.
Seduta su una vecchia sedia di legno davanti alla grande finestra dai vetri chiusi e gli scuri aperti, tremando di freddo e di sonno, pensa a quanto è raro quel silenzio. Il tramonto è pallido, e presto Nina si accorge della luce sempre più fioca. Progetta di alzarsi, camminare verso il lato opposto della stanza, scendere attentamente i gradini sconnessi, quindi percorrere il corto corridoio di assi scricchiolanti e raggiungere la cucina, dove il fuoco debole del camino accoglie i pensieri che di solito lasciano il posto ai rumori della città.
Considera che però prima potrebbe aprire la finestra per riprendersi un po’ dall’abbiocco. Si sporge in avanti, afferra la maniglia e con uno sforzo apparentemente ciclopico la gira, ma se ne pente subito: il vento le ha sbattuto un’anta sul naso. Infastidita, con una mano sulla faccia cerca con l’altra di richiudere la finestra.
Quando ci riesce, decide che deve riprendersi dalla volata di fento no, no, dalla folata di vento.
Si stringe le ginocchia al petto e abbracciandole forte rimane così, un po’ in bilico. Ricorda quella canzone che dice in bilico fra santi e falsi dèi sorretto da un’insensata voglia d’equilibrio il filo, un rasoio. Ci ragiona un po’ su e capisce che quei versi non sono né belli né poetici né particolarmente rilevanti, non si spiega cosa possa c’entrare un rasoio, decide di dimenticarli.
Si alza, accende lo stereo, e un CD, probabilmente dimenticato là l’ultima volta che era stata a Crealla, riprende da dov’era stato fermato. Laura Marling e la sua chitarra cantano Sophia: When the bell toll, when the bell go on chime…
Suona un rintocco di campana, Nina sorride alla coincidenza e subito si obbliga a tenere il conto: tre, quattro, cinque… otto. Guarda quindi l’orologio e si accorge che segna le sette.
Subito ricorda che il pomeriggio prima, quando a Cannobio aveva sentito le campane, aveva voluto trovare un collegamento con For whom the bell tolls di John Donne perché le piaceva tanto… no, non era quello il punto. Aveva visto che l’orologio era giusto, perché i rintocchi erano stati cinque e sul quadrante nero la piccola lancetta puntava il numero romano V.
Si alza dalla sedia, esita un attimo perché la gamba sinistra formicola intorpidita, raggiunge il divano zoppicando, prende il cellulare dallo zaino e legge l’ora: 21:02. Guarda ancora l’orologio, poi il cellulare e di nuovo l’orologio. Sette, nove, sette. Nina si ferma un attimo nella penombra della sala adesso più fredda, poi torna al bilico della sua sedia e con un blocco di fogli in mano comincia lentamente a ricordare. Mentre il vento squassa le fronde degli alberi sulle note di Goodbye England, una lieve ansia la agita. Ricorda tutto.
Liverpool è grigia certi giorni di fine ottobre, e chissà quanti altri. Il centro della città è la città, il resto è una brutta periferia di stradine e stradone malmesse e sporche.
Nina era uscita dall’ostello di Patrick, Patrick basso e grassoccio, dai capelli unti e appiccicati, con unghie sporche e lunghe. Patrick che forse dormiva nella grande stanza dietro alla prima porta che s’incontrava sulla destra entrando nella palazzina stretta e alta dell’Anfield Road Hostel, la cosiddetta (c’era scritto sulla targhetta affissa alla porta) Patrick’s Room. Lo stesso ometto insomma che qualche ora prima le aveva sventolato davanti agli occhi una piccola chiave dicendole in un ghigno: «Here’s your key lass, be sure to give it back to me before you leave».
Allora Nina ripensandoci, riproducendo nella sua testa lo strano accento di quella frase, aveva riso in silenzio e a passi composti per l’emozione aveva percorso Blessington Road a testa bassa, con le mani in tasca e i muscoli tesi. Alla fermata dell’autobus una vecchina sugli ottant’anni se ne stava rannicchiata sotto un grande ombrello rosso: Nina aveva alzato lo sguardo al cielo asciutto, e aveva sorriso, felice. Salita sull’autobus, aveva chiesto all’autista se era giusto per la cattedrale e il giovane aveva risposto cordiale: «Sure, I’ll tell you when we’re there».
Arrivato il momento, infatti, il ragazzo le aveva fatto cenno di scendere e lei, raggiante, dopo aver ringraziato di cuore, era saltata giù stringendo la tracolla della borsa e si era guardata attorno, accecata dai raggi del sole freddo e un po’ confusa, come quello schiavo appena uscito dalla caverna.
Bisogna qui rilevare l’accortezza dell’uomo che inventò l’idioma sbagliando s’impara, anche se in questo caso non sarebbe scorretto dire errando s’impara.
Infatti, dopo circa mezz’ora di svolte in vicoli tutti uguali, Nina era giunta davanti a una strana costruzione bianca e cilindrica, con un tetto a cupola fatto di vetro, e che a quanto pareva era la Liverpool Metropolitan Cathedral e non assomigliava per niente al palazzo che aveva visto in foto.
I battiti del suo cuore si facevano sempre più fitti e per paura di arrivare in ritardo aveva iniziato a camminare veloce, a chiedere preoccupata: «Excuse me, how do I get to the Anglican Cathedral?».
Una strana donna che vendeva palloncini le aveva detto di girare a destra, a sinistra, di nuovo a destra e due volte a sinistra, poi andare dritto fino all’arco cinese, dopo di che non sarebbe stato difficile trovarla.
Ancora prima dell’arco cinese Nina aveva adocchiato l’alto campanile di mattoni rossi e rame ossidato, e il suo cuoricino, dopo una breve pausa, aveva ripreso l’attività sfrenata di prima.
La Cattedrale Anglicana era enorme, forte e imponente sul suo corpo in confronto minuscolo. Aveva subito sentito di appartenerle. Poi, visto che alla fine era arrivata in anticipo, aveva deciso di fare un giro all’interno. Tutto era pronto, tantissime sedie erano allineate di fronte al piccolo palco. Le chitarre erano lucide sui piedistalli neri e c’erano tutti gli strumenti: il banjo, il violoncello, il contrabbasso, la batteria, il violino.
Nina sapeva che anche la sua piccola Laura, bionda e magrina, doveva essere là vicino; ormai mancava poco. Alle sei la guardia aveva detto che bisognava uscire e che le porte sarebbero state poi riaperte alle sette e mezzo.
Così Nina era tornata fuori a tremare nel vento e nell’attesa che durava ormai da mesi, che le torceva lo stomaco e che adesso le aveva anche tolto la fame.
Era una sensazione simile a quella dei cinque minuti prima dell’interrogazione, quando una morsa di paura e voglia di riuscire ti scuote gli arti e poi i denti e poi si ha la nausea e poi finisce tutto; questa però era durata di più. Parcheggiato davanti a una delle grandissime porte della cattedrale, c’era un autobus verde acqua a due piani, con vetri scuri e targa inglese. Laura doveva essere là dentro e Nina, timidamente, aveva provato a sbirciare da lontano, ma non si vedeva nulla e aveva rinunciato. Erano le sette e adesso c’era qualche persona, così Nina si era messa in fila stringendo il suo biglietto fra le mani sudate, e quando le porte erano state aperte c’erano molte, molte persone e Nina era felice, felice, felice e basta.
Ricorda che era riuscita a sedersi in terza fila e che quando Laura Marling era entrata, la sua vita le era sembrata perfetta.
Ricorda la gioia e il silenzio, il silenzio di quella musica che s’insinuava in ogni angolo della cattedrale più lunga del mondo. Poi la paura che la sua unica comunione sarebbe presto finita e ancora l’ansia di tornare quella sera all’ostello di Patrick.
Ricorda il suo cuore quando Laura aveva detto che avrebbe suonato qualche canzone da sola con la chitarra. Ricorda Goodbye England e Laura che guardava in alto perché doveva concentrarsi, e lei lo fa sempre così.
Ricorda tutto eppure quel tutto le era sembrato un sogno il mattino dopo, quando la sveglia del cellulare era suonata alle nove ma la didascalia del televisore della camera di Patrick faceva le otto e aveva guardato l’orologio che segnava le sette e la vita le era sembrata così strana.
Nina pensa a Liverpool e Laura canta The Muse.
Nina scrive e sicuramente, si promette, porterà il CD a casa, perché l’amore non è passato.
Anche se non trascorre più ore a guardare video di interviste di Laura, e anche se non sa più tutto quel che si può sapere di lei. Non è più un amore malato, ma non è passato. E deve comunque tornare a Liverpool e andare alla cattedrale come aveva fatto tutti i cinque giorni dopo il concerto, fino a quando era partita. Deve tornare a vedere Laura viva, dal vivo, a bere tè nel bar del porto che dà sullo stesso mare sul quale quell’ultimo giorno aveva nevicato. Deve partire e respirare ancora una volta la sua Inghilterra, leggere i metafisici.
Deve piantarla di fare come quell’Evelyne di Joyce, che si mette a fantasticare davanti alla finestra, capisce il rimedio alla sua vita e poi si lascia bloccare dalla paralysis.
Deve anche scrivere, perché la fa tanto, tanto felice. E allora scrive di Laura:
Dolce come anche la morte sa essere, mi hai chiesto di tacere:
«Ci capita di parlare troppo, e ciò non sempre è bene».
Vedi, so che sono logore le mie scarpe,
so le strade che percorri, le volte che hai amato…
non avrò mai il tuo sorriso
e troppe volte ho abbracciato la tua cattedrale.
Ho sognato di te e - come se tu fossi una dea -
come Dio ti ho presa e ho pregato.
Così, quando la vita andava bene e decidevo che esistevi
non ti ho amata di più, ero solo un po’ più triste.
“Più vecchi e non più saggi, così ci fa il tempo”
portandosi via qualche vita, sussurrando poche novità.
I mari, i mari sempre uguali, come ignari
ma guarda che pace, e che ira nella neve.
Una volta alla cattedrale ti ho trovata
piccina, tutta fredda, e ho tremato anch’io nel coro.
Rigida d’emozione, intonavi parole.
Avrei dovuto comprarti quel palloncino rosso…
così, quando tutto fu finito e tu effimera dissolta
ho cercato qualcosa di più vasto.
Ho trovato immenso l’Oceano
e piano, dal molo, gli ho confessato di me.
Sembrava tranquillo, buio ma attento.
Gli ho detto i miei perché, gli ho detto di te.
Alle nostre parole si è irrigidito e io, nella neve,
l’ho compreso.
I mari, i mari sempre uguali, come ignari
ma guarda che pace, e che ira nella neve.
Scriverà anche di se stessa un giorno, quando avrà abbastanza da dire.
Suonano le campane: uno, due… cinque… otto… undici, quelle di prima deve essersele perse.
L’orologio segna le dieci, mentre il cellulare dà mezzanotte.
Nina ha capito: oggi è il 25 marzo, e come quel 29 ottobre a Liverpool è cambiata l’ora. Le campane e il televisore erano giusti, l’orologio era rimasto indietro, e il cellulare che aveva e ha cambiato orario automaticamente, per non si sa quale motivo, aveva e ha sbagliato di un’ora.
Nina adesso è più tranquilla e ha un po’ fame. Si alza, apre la finestra stando attenta al vento e respira il profumo della notte, poi la richiude delicatamente: dicono che a volte le volpi dormono là nel bosco, da qualche parte. Decide di realizzare il suo progetto di qualche ora prima e posa il suo blocco di fogli sul tavolo, contenta di aver finalmente scritto qualcosa dopo tempo che non riusciva. Va in cucina, dove il fuoco debole del camino accoglie i pensieri che di solito lasciano il posto ai rumori della città, ma lo trova spento.
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