Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
6ª edizione - (2003)

I ragazzi dello zoo di Berlino

Uomini senza fallo, semidei
Che vivete in castelli inargentati
Che di gloria toccaste gli apogei
Noi che invochiam pietà siamo i drogati.
Dell'inumano varcando il confine
Conoscemmo anzitempo la carogna
Che ad ogni ambito sogno mette fine:
Che la pietà non vi sia di vergogna.

(Fabrizio De André)

Anni '70. Berlino. In poche boccate di hascisc inizia la rapida e fatale discesa di una ragazzina di 12 anni nel suo Inferno personale. Senza Virgilio a reggerla in piedi, senza verità da insegnare, solo un'anima da riempire di eroina. Solo un corpo d'adolescente da vendere per pochi marchi: 40 per una dose, ed il resto del mondo può benissimo andare in Paradiso senza di lei.
 Lei per oggi rimarrà sulla solita panchina della metropolitana. A guardare gli altri passare, scambiare con loro reciproci sguardi di disprezzo, di disgusto. A verificare quali occhi siano in realtà più spenti, i suoi o quelli degli impiegati, dei burocrati, degli automi che le danzano davanti, poco più che folletti di vetro attraverso il velo dell'eroina. A provare tutta l'amarezza delle sue illusioni, dell'umanità trovata e perduta nel giro della droga, come la famiglia trovata e perduta tra i bucomani.
 Infatti Christiane, tra queste creature sconfitte, abbandonate ai margini di ogni dignità umana e sociale, ha trovato anche e soprattutto amore: l'amore che forse può sgorgare solo da un cuore ferito, ferito dall'infame perversione di ogni giornata allo Zoo di Berlino. Ferito dai pugnali di ogni condanna decretata dal mondo civile, dalla gente perbene; pugnali affilati dal disprezzo e intinti nel letale veleno della segregazione e dell'indifferenza.
 A ben guardare, quei "bucomani" che compongono il suo squallido mondo rimangono (al di là dell'ero, al di là della prostituzione, al di là di tutto) uomini, anzi, ragazzi, ancora acerbi, insicuri, affamati di amicizia, comprensione, amore; bambini la cui vita protesa alle gioie del mondo troppo presto è stata punita dal cinismo che la civiltà ha eretto tra i casermoni di Gropiusstadt. Adolescenti che, intravisto un futuro troppo deformato e orribile da affrontare, hanno semplicemente rifiutato di varcarne la soglia, evadendone le brutture e le difficoltà dapprima nell'alcool, quindi nell'hascisc, negli acidi, fino all'estrema e tragica fuga nell'eroina.
 Nella bianca polvere il sipario che separa ogni illusione dalla realtà si è alzato bruscamente, precipitando le loro esistenze nell'incubo della tossicodipendenza e della prostituzione. Ogni affetto, ogni legame familiare e umano viene allora meno, soffocato dall'orribile tirannia della droga; ogni sentimento viene contaminato e corrotto, dell'amicizia non rimane che un'orribile "fratellanza d'ero", dell'amore una crudele catena dell'anima, per frustrarne ogni tentativo di evasione, di redenzione, di disintossicazione.
 Ritornare alla luce significherà allora sacrificare tutto e tutti, rinunciare alla propria adolescenza, ai propri amici, all'amore, abiurare il proprio mondo e la propria vita, per spezzare infine gli insostenibili lacci e liberarsi da un signore crudele e tirannico quanto intangibile. E dopo cento e una disintossicazioni, dopo dolorose ricadute, dopo lancinanti notti trascorse tra il vomito e l'agonia, dopo aver estirpato la radice del male assieme a tanti, troppi brandelli di sé stessa, Christiane è infine riuscita a salvarsi, a non finire i suoi giorni in qualche gabinetto, per una siringa di troppo; ma la sua rimarrà un'eccezione.
 Gli altri non sono con lei, non l'hanno seguita. Detlef, Stella, Babsi, Axel, Bernd, sono rimasti indietro, sono stati persi, inghiottiti dall'implacabile brama di morte dell'ero, scomparsi prima per la società, poi per le famiglie e infine anche per il mondo.
 È a loro che va il pensiero, mentre Christiane sopravvive, per consegnarci la sua testimonianza e il suo messaggio, il suo grido e la sua sofferenza; ma grida e sofferenze identiche echeggiano nello stesso istante in tutta la schiera occulta e silenziosa dei bucomani avviati alla fine.
 Loro sono ancora nelle stazioni delle metropolitane del mondo, ai margini di quelle strade che troppe volte abbiamo evitato per non dover affrontare la loro umanità derelitta, forse troppo umana per non assicurarsi un facile sigillo di diversità. Per evitare ogni inutile preoccupazione alla nostra candida coscienza, abbiamo provveduto a classificarli, schedarli come reietti della società e abbandonarli al loro tragico destino di umiliazione e morte. Li abbiamo relegati nell'oscurità che hanno acconsentito ad abitare, per allontanarne il puzzo di sconfitta, per impedire alla loro presenza di macchiare i comodi panni della nostra quotidianità.
 Ed ecco che abbiamo iscritto anche il loro nome nella nostra lunga lista di diversi, di  emarginati. Abbiamo aggiunto il loro nome affianco a quelli più antichi degli stranieri, dei criminali, degli zingari, degli omosessuali, degli handicappati. L'abbiamo scritto e abbiamo nascosto la lista tra pile di moralità e di malizie mascherate, di perbenismo e di ipocrisia, perché nessuno la possa trovare e dimostrare la nostra colpevolezza di fronte al mondo ed alle nostre coscienze. Eppure la memoria non ci inganna in questo caso, perché raramente dimentichiamo di rispettare la prassi di diffidenza e segregazione prescritta da una millenaria morale di intolleranza, prepotenza e paura.
 Proprio così, paura: una paura profonda, congenita in ogni ordine costituito, di tutto ciò che esula i suoi confini, tutto ciò che risulta estraneo e pericoloso per lo status quo vigente. Al pericolo viene quindi opposta tutta un'interminabile e familiare sequela di pre-concetti, pre-giudizi e schemi di pensiero pre-confezionati; artificiali muraglie di diffidenza e insensibilità, atte ad escludere ogni contatto ed incontro umano con il diverso, per rinchiudere i propri orizzonti nel confine del conosciuto, di ciò che ci risulta più simile e quindi più rassicurante, riconoscibile, controllabile.
 Ecco perché opere come I ragazzi dello zoo di Berlino sono pericolose, potenzialmente devastanti per ogni struttura di potere e di controllo della società. Esse sono un invito pressante e drammatico ad aprire gli occhi, ad emanciparci dalla schiavitù mentale del conformismo, ad affacciarci alle feritoie delle nostre muraglie per vedere finalmente ciò che si estende al di là del nostro fossato: il resto del mondo, certamente diverso, inquietante e misterioso, talvolta anche pericoloso e ripugnante, ma più spesso sorprendente ricco e fecondo, se esplorato.
 Sono richieste improrogabili, di ritrovare ogni lista che il passato ci ha tramandato, per distruggerne la meschinità tra i frammenti delle nostre certezze infrante, tra i resti di antiche e moderne ipocrisie.
 Ecco cosa ci accingiamo a fare adesso, ora che il libro è ormai chiuso, le parole finite. Osserviamo le fiamme ardere, i fogli crepitare, mentre ci scaldiamo al fuoco di una rinnovata fratellanza, davanti alla stazione, in compagnia di troppe facce bianche e smunte, mentre il fumo si innalza sulla città e sul mondo.
 E su tutto aleggia un senso di inquietudine profondo, e il disperato messaggio di Christiane: in fondo, non è la droga ad aver realmente annientato quelle anime assenti.
 L'eroina è solo uno degli strumenti, l'esecutore materiale di una condanna all'agonia ed alla morte fisica e morale, la cui sentenza è stata emessa altrove: nella mancanza di amore, comprensione e pietà con cui quotidianamente uccidiamo la nostra umanità, nell'assurda competizione e ansia di predominio cui ci prestiamo istante dopo istante, e che trasforma la nostra vita in un lungo cammino di morte.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010