Il lamento di Calipso
Portava Iris, dei numi celere aralda,
il verbo di Giove agli Etiopi scuri.
Quand’ecco, calata la notte sul mondo,
all’isola della divina Calipso,
sostò e si fermò a riposare, stanca.
Arrostì per lei un agnello la dea,
e con lei mangiò ambrosia e nettare bevve.
Quando finito ebbero, esse parlarono,
Iris chiese di raccontarle d’Ulisse.
Mesta si fece subito la compagna
e raccontò così, in volto assai scura
«Giunse dal pescoso pelago all’isola,
la mia isola, dopo che dieci volte,
da che Zeus Cronide compagni e nave
fe’ sprofondare irato nel nero abisso,
Febo invitto, giù dal bronzeo cielo
era calato stanco nel mar azzurro.
Egli solo fra i suoi scampò la morte.
Per le acque infeconde fu spinto Ulisse,
a Ogigia fiorita, donde io tessevo.
Stremato arrivò sulla riva e lo accolsi.
Simile pareva a uno degli dei Celesti,
l’immortalità gli mancava, sol’essa,
il sempre resister al colpo del tempo.
Pur i più potenti della terra infatti,
sebbene signori d’imperi debbono,
al comando della Parca, obbedire.
Eterno pur lui sarebbe divenuto,
volendo io certo come me l’avrei fatto,
qualora scordato avesse il suo passato.
Il nettare io, misera me, gli avrei dato,
che i sempiterni alle lor divine mense
brindando bevon beati sull’Olimpo.
Solamente la moglie, la terra amata,
l’isola sua diletta aveva nel cuore.
Pena e dolor gli sconvolgevano il petto,
quando da solo sulla riva del mare
con il suo sguardo perduto tra la nebbia
cercava piangendo infelice la patria.
Sordo era il crudel davanti al mio amore.
Comprendere il suo soffrir non mi è dato,
ah! non furon fatti affini mortali e dei».
E qui tacque. Da amare lacrime gli occhi
qual luminosi astri celati da nubi
furon velati, spenti dal ricordo.
Ma poi continuò con alate parole:
«Zeus ascoltò infin le sue preghiere:
il veloce Ermes mi portò i suoi comandi
e fui costretta ad assentir obbediente,
perché così come la fragile canna
per non spezzarsi si piega al forte vento
si chinan gli dei tutti al voler di Giove.
Verso casa il saggio Ulisse partì
Lasciandomi qui, ancor dimenticata.
Tornai così sola, condannata per sempre,
in solitudine per l’eternità.
Né è consolazione l’esser divina,
Perché vivere, e poi infin morire,
secondo il mio fato, avrei preferito,
non oziar nei miei infiniti giorni,
per sempre tristi, immutabili e vuoti».
Tacque, e si ritirò nelle sue stanze.
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