Marinella - Una donna si legge allo specchio
Marinella sentiva che il suo diventare donna pian piano si faceva prepotente. Sentiva la nuova metamorfosi in fondo a tutte le ossa, e si abbandonava a essa compiaciuta.
Erano già venuti giorni di passaggio, che avevano fatto di lei bambina una ragazza, un’adolescente con tutte le implicazioni del termine, confusione, paura, insicurezza, disprezzo di sé e del corpo che muta. Ora lei adolescente smetteva di esserlo, con lentezza, e si faceva donna.
Marinella guardava paziente il cambiamento, senza più confusione, paura, insicurezza. Il corpo s’era già fatto maturo in quegli anni duri da ragazza adolescente, mancava solo il pensiero, il modo di sorridere e di muovere le mani, e quello stava venendo, la stava facendo diventare donna. Tutto il mondo le pareva a sua disposizione, e il delirio di onnipotenza la faceva ridere di sé.
Si metteva allora davanti allo specchio grande del bagno, con la porta chiusa a chiave, che qualcuno avrebbe potuto interrompere per errore il suo diventare donna. Si levava tutti i vestiti e li lasciava cadere sul pavimento, con la malizia di chi sta davanti al suo amante. E privata degli abiti da ragazza, che ancora parevano imprigionarla nello stadio precedente, nuda, si sentiva donna più che mai. Si guardava. Lo specchio le restituiva un’immagine nuova, bella, gloriosa, femmina. Sprigionava forza da ogni lembo di pelle.
Gioiva di sé stessa, era donna in ogni luogo, dentro e fuori, ne sentiva l’essenza nel ventre.
E lo smalto sulle unghie e il trucco sugli occhi non potevano sostituire quel sentire, quel sentire che le regalava gli sguardi di uomini per strada e le riempiva di forza ed eleganza la camminata. Marinella era donna, e lo sapeva.
Nulla di più bello di una donna che sa di essere donna. Donna nelle gambe forti, nelle cosce piene, nei fianchi che appena ondeggiavano lasciandosi dietro leggere promesse. Donna nei seni, che sfiorava con la punta delle dita e stringeva fra le mani, gioendo del loro tepore. Donna nelle braccia e nel collo bianco, nelle spalle larghe, nella schiena che torceva il collo per vedere, la curva che scendeva fino alle natiche. Il divorante desiderio di movimento, di forza, di vita, di sesso, che si insinuava in ogni muscolo con un’insistenza quasi insopportabile, e le faceva flettere le braccia e le gambe per cercare sollievo, soddisfazione a quella pulsione feroce.
Scioglieva i capelli e sorrideva alla loro carezza quando le cadevano sulle spalle. Ci infilava dentro le mani, li spostava dal viso per guardarsi meglio negli occhi. Fissava lo sguardo nel suo e si lanciava terribili sfide, si prometteva terribili promesse. Storceva le labbra, scopriva i denti bianchi in un ringhio, faceva scivolare il ringhio nel sorriso, s’addolciva, faceva l’espressione malinconica, poi schiva, poi desiderosa. Praticava con concentrazione l’arte della civetteria. Improvvisamente seria, s’avvicinava al suo riflesso. Avvicinava la bocca alla sua, regalandosi un bacio narciso, leccando lo specchio, a volte, se si sentiva abbastanza sensuale. E immaginava di darsi, così, a un amante e di essere ai suoi occhi bella e donna come lo era agli occhi propri.
Poi s’allontanava, e si guardava di nuovo tutta intera, studiandosi con cura da capo a piedi, prendendo nota dei difetti, senza riuscire a crucciarsi troppo per la loro presenza, sorridendo spudorata delle sua vanità e della vita femminile che sentiva, vedeva, persino sotto le unghie. S’alzava sulle punte dei piedi stendendosi tutta verso il soffitto, e poi si lasciava scivolare a terra, sul tappeto rosso, e si sdraiava, allargava le braccia, si faceva ammirare in ogni luogo dalla gente che non c’era in quella stanza.
Rilassata chiudeva gli occhi e immaginava il suo futuro, il suo futuro di donna bella e consapevole. L’aveva tutto davanti, il suo futuro. E vulnerabile e distesa lasciava che il pensiero di esso, o del suo fallimento, la spaventasse tanto da toglierle il fiato. In quegli attimi solitari, solo, si concedeva d’essere terrorizzata da se stessa, da ciò che con prepotenza pretendeva. Perché Marinella era una donna forte, e pretendeva cose forti dalla sua mente e dal suo corpo, cose forti dalla vita, dal mondo, da chi l’amava e da chi l’avrebbe amata. E donna forte annichiliva dinnanzi al pensiero del fallimento, del fallimento di se stessa e della sua immagine, del suo corpo e della sua mente. Appoggiava le mani sul ventre e saggiava con la punta delle dita il calore femminile che da esso emanava promettente. Si chiedeva cosa sarebbe accaduto se un giorno, perché il destino è bastardo, avesse tradito quel calore di donna e avesse lasciato il fallimento incombere. Sarebbe stata perdente e sconfitta, lo sapeva, e il suo calore femminile, il suo corpo bello, il suo essere donna si sarebbero spenti, afflosciati, l’avrebbe abbandonata al freddo di membra scarne che non hanno fiducia né amore.
Erano pensieri tristi che le mettevano addosso voglia di piangere; Marinella sapeva che era importante affrontarli sola, sdraiata sul tappeto rosso del bagno, con l’unico conforto del suo corpo di donna nuova, grande conforto. Li affrontava e li esaminava riempiendo i polmoni di profondi respiri. Si sfilava tutte le paure davanti alla mente, e quando l’elenco le pareva finito, solo allora, s’alzava di nuovo, si guardava nuda e bella nello specchio grande, s’asciugava gli occhi che avevano lacrimato e si rivestiva con lentezza. Nascondeva il suo corpo di donna sotto vestiti di adolescente, e girava la chiave della porta e usciva sentendo che mai nessuna battaglia l’avrebbe riempita di gloria come quella che tanto spesso combatteva contro se stessa.
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