Vittoria Colonna
Non era amore, quello.
Posai il Canzoniere di Bembo e guardai fuori dalla finestra. Una rigida, vuota e superficiale imitazione di Petrarca non era amore. Perché nessuno capiva che l’equilibrio di Petrarca era solo formale, e che dietro c’era uno straziante travaglio della mente e dell’anima?
Io ero convinta che le poesie migliori nascessero quando le parole scivolano fuori dalla penna e non rispondono a nessuno stupido canone d’imitazione. Anch’io ero una petrarchista, ma almeno le mie rime non erano una sterile imitazione di Petrarca.
Anche perché il vuoto dentro di me era così doloroso che non si poteva arginare con delle regole di stile. Era stata la poesia a salvarmi; avevo scoperto che, scrivendo, la morsa di gelo che mi soffocava allentava un po’ la presa. Sembrava che il mio cuore si nutrisse della doglia e che non ne volesse sapere di consolazione, ma io non riuscivo più a gestire tutto quel dolore, dovevo metterlo da qualche parte.
Il vuoto si era aperto quando mio marito, Ferrante d’Avalos, era morto nella battaglia di Pavia, quel crudele 25 marzo. Stavo per salire su una nave e precipitarmi a Pavia quando da quella stessa nave era sceso un ufficiale di Carlo V che mi aveva comunicato in un italiano un po’ incerto, appena venato dall’accento tedesco, che mio marito era morto.
«Suo marito è morto. Mi dispiace. Ha combattuto valorosamente».
Quelle parole mi perseguitavano ogni giorno. Magra consolazione, sapere che aveva combattuto valorosamente. La sua fedeltà a Carlo me l’aveva strappato.
Mi portai la mano alla bocca e mi stupii nel sentire le guance bagnate. Mi sembrò che qualcuno mi avesse conficcato una lunga e gelida lama nel cuore. Tremavo.
«Vittoria, stai bene? Vittoria?»
La voce di Michelangelo Buonarroti aprì uno squarcio nella mia mente annebbiata. Arretrai, ruotai su me stessa e corsi via.
Non mi fermai, ma continuai a correre sotto la pioggia, senza avere idea di dove stessi andando. Non riuscivo a mettere a fuoco niente. Sentivo le lacrime che mi sgorgavano dagli occhi e mi scorrevano sul volto insieme alla pioggia.
Continuai a correre finché la strada non si interruppe. Non era giusto. La strada non poteva interrompersi. Non doveva interrompersi. Non potevo fuggire se la strada era interrotta. Il dolore mi avrebbe raggiunto se non fuggivo.
E infatti il dolore mi strisciò addosso, assalendomi alle spalle, poi esplose.
Urlai forte e sarei crollata in ginocchio in mezzo alla strada se Michelangelo, che mi aveva inseguito, non mi avesse afferrato.
Volevo morire anch’io.
Qualche giorno dopo, appena mi svegliai, la porta si aprì ed entrò Costanza, la mia dama, seguita da tre uomini. Li conoscevo bene, quasi quanto Michelangelo. Quello alto e robusto con lo sguardo tagliente, vicino all’ombroso ed emaciato Michelangelo, era Pietro Aretino. L’altro, più basso e magro, dall’aria perennemente stanca, era Ludovico Ariosto. All’inizio mi chiesi cosa fossero venuti a fare di mattina presto. Poi mi accorsi, dalla posizione del sole in cielo, che era mezzogiorno. Come mai avevo dormito così tanto?
Poi ricordai… incubi. Avevo avuto incubi per tutta la notte… sognato Ferrante…
Volevo starmene da sola, ma non potevo buttarli fuori.
«Vittoria…» con aria desolata Ariosto si avvicinò «abbiamo saputo di vostro marito. Mi dispiace tanto. Siamo venuti a vedere come stavate. Oh, Dio, avete un aspetto orribile».
«Sto bene» dissi meccanicamente.
Pietro mi squadrò. «Si vede».
Intravidi il mio riflesso nei vetri della finestra. Ero in uno stato pietoso. Avevo i capelli arruffati e i vestiti tutti spiegazzati. Avevo gli occhi rossi, come se avessi pianto tutta la notte e non me ne fossi accorta.
Dovevo darmi un contegno. Mi alzai, chiesi scusa e uscii dalla stanza. Mi feci aiutare da Costanza per pettinarmi e cambiarmi, quindi tornai indietro.
Michelangelo, Pietro e Ariosto si erano accomodati e stavano parlottando a bassa voce. S’interruppero di colpo quando entrai.
Sospirai e mi sedetti sul letto. «Guardate che se fate così ogni volta che arrivo, non riuscirò a gestire la cosa».
«Scusate» borbottarono tutti in tono colpevole, poi Michelangelo si schiarì la voce e disse: «Stavamo appunto commentando gli effetti devastanti dell’amore. Ma forse voi non siete dell’umore…».
Feci un gesto impaziente. «Non sono gli effetti devastanti dell’amore. Sono gli effetti devastanti della morte». Rabbrividii. L’immagine di Ferrante continuava a danzarmi davanti agli occhi. «Però devo ammettere che l’amore stringe in un laccio che niente può sciogliere, anche quando si è come morti dentro. La fede ha fatto il nodo e il tempo lo stringerà».
«Non siete la prima donna a vivere una tragedia simile» disse Pietro. «Penelope e Laodamia…»
«Il marito è tornato da tutte e due».
«Arianna e Medea…»
«Teseo e Giasone non ne valevano la pena».
«Portia…»
«Si è consolata in fetta».
Pietro alzò le mani in segno di resa. «Il dolore per la perdita di un consorte è sempre infinitamente maggiore rispetto a quello per la perdita di chiunque altro» commentò. «Per questo io sono reticente a sposarmi».
«Senza una moglie a fianco un uomo non può essere completo nella sua bontà» ribatté Ariosto. «E Vittoria, non potete negare che l’amore sia di per sé causa di follia. A esempio, Alessandra» arrossì leggermente nel pronunciare il nome dell’amata «mi fa uscire così di senno che ho paura di perdere la testa come Orlando e di non riuscire a finire di scriverlo».
Sbuffai. «Avete già finito di scriverlo. E l’avete anche pubblicato. Ed è piaciuto molto».
«Sto lavorando alla seconda edizione» mi spiegò «devo mettere a posto la lingua».
Non mi meravigliava che fosse amico di Michelangelo. Tutti e due eternamente insoddisfatti dei propri lavori.
Anche Pietro sospirò, quasi irritato. «Ludovico, voi siete troppo influenzato da tutta la letteratura cortese, stilnovista e petrarchista che ci precede. Il mercato dei libri è saturato da opere che parlano di donne divine dai capelli d’oro e dagli occhi pieni di amore, con l’incarnato d’avorio, le labbra scarlatte, i denti bianche perle. Ma vogliamo guardare la realtà? Se io dedicassi una poesia a una donna, le scriverei la realtà senza alcun codice letterario a filtrare. Me ne vergognerei».
«Voi avreste problemi a parlare di chiunque senza insultarlo» commentò Michelangelo, e Pietro gli sorrise.
«State attento» lo ammonì Ariosto. « L’amore si vendica sugli insensibili come voi».
«Sa dove trovarmi» disse Pietro in tono indifferente. «Comunque c’è tutto un filone di poeti che si crogiola nella disperazione di un amore non corrisposto. E voi non credete di scamparla, cara Vittoria. Anche le donne, che ultimamente hanno aderito al petrarchismo, non parlano che di amori tragici e di uomini crudeli…».
«È l’unica cosa attraverso la quale possiamo emergere dalla società che ci vuole solo mogli e madri» ribattei. «A voi uomini vanno la politica, la guerra e gli affari. A noi restano la casa e l’amore. Vivere un amore tragico per una donna è nobilitante quanto compiere un’impresa eroica per un uomo».
«Capisco» disse Ariosto «ma per lo più è la donna a essere crudele, no? Mi risulta che sia l’uomo a corteggiare, e che alla donna spetti decidere se accettare oppure no».
«La donna non è crudele- intervenne Michelangelo». «È una cosa che ho pensato mentre lavoravo su un blocco di marmo. Ho avuto un momento di panico perché non sapevo da che parte iniziare, così ho cominciato a ripetermi che la scultura era già dentro il blocco, e che io dovevo solo tirarla fuori. Allo stesso modo nel cuore di una donna ci sono sia odio che amore, e non è colpa della donna se il suo uomo riesce a tirar fuori solo l’odio».
Poi, d’improvviso, si zittì e mi guardò con aria allarmata.
«Che c’è?»
«Noi stiamo qui a parlare di amore e di donne, e a voi è appena morto il marito» disse Michelangelo con aria mortificata. «Non…».
Scossi la testa, respingendo le scuse. «No, mi fa bene» dissi «devo sfogare il mio dolore in qualche modo. Parlarne è uno. L’altro è scrivere» aggiunsi, attirando l’attenzione dei due poeti.
«Avete scritto sulla morte di vostro marito?» chiese Ariosto.
«Per ora solo un sonetto. Ma penso che ne scriverò altri».
Sospirai.
«Molti altri, se voglio sfogare tutto questo dolore».
«Posso leggerlo?» chiese Michelangelo.
«È sullo scrittoio». Gli feci cenno di prenderselo da solo.
Scrivo sol per sfogar l’interna doglia
Ch’al cor mandar le luci al mondo sole,
e non per giunger lume al mio bel Sole,
al chiaro spirto e a l’onorata spoglia.
Giusta cagion a lamentar m’invoglia;
ch’io scemi la sua gloria assai mi dole;
per altra tromba e per più sagge parole
convien ch’a morte il gran nome si toglia.
La pura fe’, l’ardor, l’intensa pena
Mi scusi appo ciascun; ché’l grave pianto
È tal che tempo né ragion l’affrena.
Amaro lacrimar, non dolce canto,
foschi sospiri e non voce serena,
di stil no ma di duol mi danno vanto.
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