Una siepe di fichi d’india
Agata La Rosa osservava la siepe e quella, con le pale gonfie e verdi, la fissava di rimando.
Orgogliosa, la siepe, di quella ragazzina esile, con la pelle bruciata dal sole di Agrigento, cresciuta insieme con lei, succhiando la stessa linfa.
La siepe, dicevamo, guardava Agata. Agata che gliela stavano strappando via, Agata che partiva.
Selvatica, diffidente e sveglia, venuta su a olive e fatica. Che voleva imparare. Agata quartara vuota sempre lì, pronta, per non lasciarsi sfuggire nemmeno una goccia di conoscenza in quella terra arida. Arida e bella, dai fichi dolci come il miele.
Agata e quel suo amore grande di bambina: Saro Mancuso, il generale, compare d’anello a Nicola La Rosa, sindacalista. L’uomo buono che voleva bene agli uomini, che la penna gialla sul basto del suo cavallo non l’avrebbe messa mai.
Saro ammazzato dalla lupara.
Le siepi non sanno piangere, gli uomini hanno paura.
«Tu hai capito, Agatì?» le aveva domandato.
Sì, Agatì aveva capito: aveva tremato sotto gli spari, è vero, ma ci pensava ancora al bene degli uomini, quelli che ci sono e quelli che ci saranno.
«Partiamo allora» aveva detto Nicola «facciamole il tradimento a ‘sta nostra terra!».
E la siepe era rimasta sola. Davanti a lei Agata non ci stava più.
Agata che «Tornerai?».
Ora.
Un anno era passato?
Davanti alla siepe stava Tanino, Tanino da ragazzo a uomo. Tanino la penna gialla l’aveva bruciata! E dietro c’era il carretto di Saro, con su dipinto Garibaldi: toccava a lui portarlo adesso.
Nello sguardo di Tanino, Agata, tale e quale a come l’aveva vista nel continente, con gli occhi di sempre: neri, neri.
E negli occhi di quell’Agata nuova, un volto sconosciuto.
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