Tutto ciņ che ci č dato per vivere
È una bambina irriverente.
Una ragazza sarcastica.
Una donna dura.
Sempre una persona fragile.
L’albero è ancora lì.
Ha avuto paura di non trovarlo, per un attimo.
L’albero e la donna rimangono fermi.
Si guardano in silenzio.
Sono vecchi amici che si ritrovano e si dicono “Mi sei mancato”.
I rami del nocciolo, ruvidi di anni, le accarezzano i capelli macchiati di grigio.
Le foglie, piegandosi sotto la pioggia, si posano sulla sua fronte e sui suoi occhi, profumate d’estate.
Le lasciano qualche goccia sulla pelle.
Ci costruiva le capanne, là sotto.
A maggio, quando l’erba era abbastanza alta da nascondere del tutto loro bambini, arrivava quella macchina strana di cui non ha mai imparato il nome. Ingoiava il prato da una parte e lo risputava fuori dall’altra.
Poi faceva le balle di fieno, ed era il giorno più bello dell’anno.
L’albero è stanco.
La donna gli sussurra un “Ti voglio bene” che viene sovrastato dalla pioggia.
Sono cresciuti assieme, hanno giocato assieme e ora sono stanchi insieme.
Si abbracciano.
Il suo corpo immobile e umido la avvolge di odore di temporale.
Lei ha il volto fermo e parole sospese nello sguardo.
Come da bambina. Come da ragazza.
Era quel qualcosa che la faceva guardare con soggezione dai bambini. Sebbene ridesse con loro.
Quello che dopo i ragazzi più coraggiosi avrebbero cercato da lei.
Piove forte.
Le gocce cadono sulle foglie più alte con un ritmo frenetico.
Poi scivolano in silenzio attraverso la chioma e impiegano un’eternità a raggiungere il terreno.
Alza il volto verso il cielo violaceo, così denso di nuvole scure da sembrare un oceano. E sono le gocce di quell’oceano che le cadono sugli occhi, che si sforza di tenere aperti, perché non è altro che vita quella che le sta piovendo addosso, vita martellante, vita che fugge e che distrugge, vita che è morte insieme.
Qualcosa le stringe la gola ed è infinitamente dolce e infinitamente triste.
Insostenibile.
Sente il bisogno di urlare, di gridare al mondo quanto è bello e tremendo amare così profondamente, ed essere lì, con un amico che ti ha accompagnato tutta la vita, sotto la pioggia, d’estate.
Inizia a sussurrare parole, che si perdono nel fragore del temporale, ma per lei, per lei che le sente incagliarsi nella lingua e tra i denti per uscire, sono forti abbastanza per rabbrividire: perché sono tutto ciò che abbiamo per costruire un fragile, effimero ponte tra noi e il mondo. Tutto ciò che ci è dato per vivere.
Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un
simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti
dei noccioli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante
di quando cosa ch’è felice, cade.
Parole. Le ha tanto odiate, le parole, per non saperle mai trovare. Ma ora ringrazia i poeti, i romanzieri, gli scrittori. Li ringrazia di aver avuto il coraggio di rendere eterno nell’inchiostro quel ponte che li univa solo per un attimo al mondo, e così facendo di essersi resi per sempre aperti all’altro. Li ringrazia perché così quando sei solo non puoi mai esserlo del tutto. Li ringrazia perché riempono i suoi occhi, talvolta di lacrime, e di sogni, e d’amore, ma sempre li riempono, li nutrono.
Si stringe al tronco del nocciolo, alla sua corteccia. La sfiora con le dita. Ne aspira il profumo.
Non esiste più confine: è lei, è lui, è il mondo.
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