Invernale - racconto ispirato dalla poesia omonima di Guido Gozzano
Il pallido sole dell’inverno sembrava che stesse aspettando, sospeso, come immobile, che un comandamento divino gli dicesse che era tempo per lui di tramontare e rincorrere l’oscurità di altri cieli, per poi sfuggire di nuovo in una corsa senza fine. La sua tenue luce illuminava pacata le cime degli abeti innevati e si posava sul ghiaccio, cercando quasi di non ferirlo, senza la prepotenza che acquisisce a poco a poco durante la primavera e che ci impone d’estate.
Noi ci guardavamo negli occhi e scoprivamo in questi cose sconosciute: incuranti della sua delicatezza, volavamo in universi lontani in un’unione perfetta. Il ghiaccio sotto di noi era rigato da tutti quelli che volgarmente vi strisciavano sopra, ma noi non ci accorgevamo di nulla, né degli sguardi delle persone che ci circondavano, né delle loro parole, né del sole che ci guardava, distante e saggio, come chi ha già visto ogni cosa.
Danzavamo il nostro amore e il nostro sorriso, danzavamo la nostra giovinezza e la nostra spensieratezza. Il suo vestito azzurro era l’unica cosa che vedevo, la sua carnagione chiara e i suoi capelli scuri gli unici che distinguevo, ero sordo e cieco e tutto l’universo conosciuto mi sembrava concentrato nella sua figura di giovane donna che volteggiava e mi guardava serena.
Eravamo così immersi in questo incanto, quando, all’improvviso, si sentì uno scricchiolio cupo, un rumore sordo e spigoloso che ci ridestò bruscamente.
“A riva!” si sentiva gridare da ogni parte e un grande tumulto ci circondò: rimanemmo storditi, come quando si viene violentemente svegliati da un bel sogno e risulta difficile distinguere la realtà.
“A riva! A riva!”. Le voci dei bambini schiamazzavano, già tutti si erano messi in salvo e così mi accinsi a fare anch’io, ma quella che per qualche istante avevo perso di vista ritornò trionfale sulla scena e impose la sua presenza e la sua volontà.
“Resta!” mi disse, serrandomi il braccio con le sue mani d’angelo e impedendomi la fuga.
“Resta, se tu m’ami!” e, intrecciando le sue dita alle mie, mi sciolse da ogni altro desiderio.
Rimanemmo noi due soli, liberi dal passato e dal futuro, liberi dal tempo e dalle preoccupazioni umane, paghi del nostro amore: disegnammo ampi cerchi sul fragile ghiaccio e fummo sordi ai richiami delle persone.
Troppo presto, tuttavia, lo scricchiolio odiato mi destò ancora una volta ed echeggiò, sempre più tetro, e rimbombò, sempre più sordo.
Pareva che il respiro della Morte mi avesse ammonito per l’ultima volta e che quella stessa belva bianca incombesse su di me e scaturisse dal ghiaccio e tentasse di raggiungermi: m’invase una paura fulminea e devastante. La volontà di vivere s’impose in me, un istinto più antico del ghiaccio mi mosse e in un attimo mi costrinse a rompere il fragile incanto in cui danzavamo. Liberai le mie dita dalle sue e ritrovai il fardello della vita: le voltai allora le spalle e corsi con quell’odiato rombo nelle orecchie e quella celeste figura nel ricordo.
Corsi e guadagnai la riva, ma lei rimase là, sola, come l’ultima stella che al mattino lotta fino all’ultimo contro l’alba che avanza già vincitrice, e danzò con l’abbandono di una donna che accetta che la vita non sempre è come lei la desidererebbe.
Volteggiò leggera, unica regina nel suo regno di ghiaccio, unica attrice dello spettacolo della sua solitudine e della mia codardia, mentre noi, spettatori inopportuni, la ammiravamo attoniti.
Infine ella si decise a tornare a riva e con passo rapido ed elegante si mise in salvo: col respiro affannato, le gote rosse e quei suoi capelli sciolti e spettinati che la rendevano ancora più bella mi si avvicinò, poco badando ai rimproveri delle altre donne.
“Signor mio caro, grazie!” disse con un sorriso garbato.
E mi protese la mano breve, sibilando: “Vile!”
Invernale
«…cri…i…i…i…icch…»
l’incrinatura
il ghiaccio rabescò, stridula e viva.
«A riva!» Ognuno guadagnò la riva
disertando la crosta malsicura.
«A riva! A riva!…» Un soffio di paura
disperse la brigata fuggitiva.
«Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto,
le sue dita intrecciò, vivi legami,
alle mie dita. «Resta, se tu m’ami!»
E sullo specchio subdolo e deserto
soli restammo, in largo volo aperto,
ebbri d’immensità, sordi ai richiami.
Fatto lieve così come uno spetro,
senza passato più, senza ricordo,
m’abbandonai con lei, nel folle accordo,
di larghe rote disegnando il vetro.
Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro…
dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo…
Rabbrividii così, come chi ascolti
lo stridulo sogghigno della Morte,
e mi chinai, con le pupille assorte,
e trasparire vidi i nostri volti
già risupini lividi sepolti…
Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più forte…
Oh! Come, come, a quelle dita avvinto,
rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!
O voce imperiosa dell’istinto!
O voluttà di vivere infinita!
Le dita liberai da quelle dita,
e guadagnai la ripa, ansante, vinto…
Ella solo restò, sorda al suo nome,
rotando a lungo, nel suo regno solo.
Le piacque, alfine, ritoccare il suolo;
e ridendo approdò, sfatta le chiome,
e bella ardita palpitante come
la procellaria che raccoglie il volo.
Non curante l’affanno e le riprese
dello stuolo gaietto femminile,
mi cercò, mi raggiunse tra le file
degli amici con ridere cortese:
«Signor mio caro grazie!» E mi protese
la mano breve, sibilando: «Vile!».
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