Un’esperienza di lettura al femminile
Segregata in una stanza d’ospedale dalle pareti candide e opprimenti.
Stesa in un letto dalle lenzuola ruvide, terribilmente fastidiose, impregnate dell’odore forte e pungente del disinfettante che, al pari di un narcotizzante, sembra darmi alla testa.
Il desiderio di fuggire è forte, genuino, reso impossibile da una flebo conficcata in profondità nel mio braccio.
Scriverti è doloroso: a ogni movimento avverto fitte terribili dilaniarmi la carne.
Lamentarsi non serve: non c’è nessuno a prendersi cura di me.
Tutti mi guardano con aria compassionevole, quasi disgustata, soffermandosi sul colorito giallognolo, simile a quello dei malati di fegato.
Il loro sguardo sospettoso che corre lungo le braccia scarne fino ad arrivare alle clavicole sporgenti e sul volto asciutto, marchiato a fuoco dalla sofferenza.
Avere visite mi è concesso di rado: “Non fa bene alla tua stabilità psicologica”, dicono i medici, col loro solito fare imperscrutabile, serio, privo di qualsiasi emozione.
Nessuno di loro sembra voler rispondere alle mie domande: “Quando tornerò a casa?”; “Quando potrò riabbracciare i mie famigliari?”.
Mi avevano promesso che sarei stata meglio, ma io mi sento ancora a pezzi.
Promesse non mantenute, misere frasi di consolazione che non fanno altro che accrescere in me un odio nei loro confronti e verso me stessa, nero come la pece e letale quanto il morso di un ragno velenoso.
Posso urlare, contorcermi, soffrire, ma a nessuno sembra importare: sono un fantasma.
Ho finito col non sentire più niente, né il calore del cibo servitomi dalle infermiere che mi sfiora le labbra secche e disidratate, né i battiti lenti, quasi impercettibili, del mio cuore ferito, fatto a pezzi da una realtà troppo crudele e priva di qualsiasi forma di compassione.
Non sento nemmeno quel poco di vita che, ancora, mi scorre nelle vene.
Nulla sembra più avere importanza, niente ha più valore.
Sono una bambola rotta, inutile, alla quale hanno strappato gambe e braccia e che presto finirà nella discarica insieme ad altri rifiuti: mi dimenticheranno.
Scriverti è l’unica consolazione rimastami, un barlume di speranza che sembra voler risplendere nella mia oscurità che, presto o tardi, mi ghermirà completamente.
Mi fa pensare che, forse, nelle tue pagine continuerò a vivere… se mai dovessi morire.
Non disilludermi adesso. Lasciami andare avanti con questa convinzione che sembra volermi tenere a galla. Non lasciarmi sprofondare in quel baratro oscuro dal quale non vi è più ritorno.
Non è molto, ma me lo farò bastare.
Fuori dalla finestra la sera si sta avvicinando, furtiva e silenziosa.
I raggi del sole vanno a nascondersi impauriti dal gelo della notte, la quale porta con sé incubi, paura e morte.
Ombra estranea, che scruta silenziosa le ferite innumerevoli della mia anima.
Dormire è impossibile, non mi serve: la mia intera esistenza è un incubo senza fine, dal quale non riesco a svegliarmi.
Gli occhi arrossati e umidi di pianto, contornati da spesse occhiaie che conferiscono al mio volto un aspetto ancora più malato e critico.
Non mi riconosco più.
“Chi è questa persona dallo sguardo vitreo, spento, incapace di riflettere persino la debole luce di una candela?”, domando a me stessa, scrutandomi nei vetri lucidi e scintillanti della finestra vicino al mio letto, unico punto di riferimento sul mondo esterno.
“Era quello che volevi”.
Eccola, la sento, quella voce sarcastica che si prende gioco di me, sconosciuta, torbida e tagliente, che affonda nell’orecchio senza pietà, viscida come un serpente, che s’insinua silenziosa nella mia mente, divorandone quel che ne rimane: cocci, rifiuti, frammenti, escrementi che mi hanno corroso fino al midollo.
Parole non dette, bugie con le quali ho nutrito me stessa per troppo tempo.
Un senso d’inadeguatezza tale che non ti lascia tempo nemmeno per riprendere fiato, che si finge tua amica, che ti coccola quando ti senti incompresa ma che non esiterà a spingerti senza remore verso la tua fine, giù, sempre più in basso, fino a quando le fiamme dell’inferno non ti avranno distrutto completamente, fino al momento in cui di te non rimarrà che cenere.
Non è follia, né immaginazione: lei è lì.
Si nasconde insidiosa in qualche angolo remoto della tua mente e aspetta… attende il momento giusto per ferirti, per morderti e marchiarti a vita.
Non posso e non riesco a debellarla. Ci ho provato e ho fallito, miseramente.
Credevo di poter stare bene e che le cose sarebbero tornate come una volta.
Un senso di nostalgia si fa strada nel mio petto: rivoglio indietro ciò che mi è stato tolto… ciò che ho gettato via.
Orgoglio, ingenuità, immaturità, sono colpe delle quali mi sono macchiata e che hanno finito coll’avvolgersi intorno al mio collo al pari di catene da venti tonnellate l’una: la mia punizione.
Il dolore è troppo forte, pungente, fastidioso e tanto, troppo amaro.
Lacrime salate mi solcano il viso, impedendomi di focalizzare lo sguardo sull’uscita da questo tunnel della morte.
Ora basta.
Sono stanca e la mano non vuole saperne di continuare a scrivere.
Quello che voglio, adesso, è solo riposare, chiudere gli occhi con la piccola speranza di sognare le persone alle quali voglio bene e che desidero riabbracciare.
Perché io?
Perché devo soffrire così?
Che qualcuno mi risponda.
Vorrei poter dimenticare, credere che tutto questo è solo un brutto sogno.
Che qualcuno mi risponda, ditemi che le cose stanno in questo modo.
Prima di morire vorrei sorridere un’ultima volta.
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