I giorni
Cinque giorni.
Non ero felice.
Le prime cose che vedo la mattina, aprendo gli occhi, sono le borse e i libri abbandonati sul pavimento di camera mia. Il mio disordine e io ci sopportiamo a malapena, ma sappiamo bene che nessuno dei due può averla vinta. Mentre mi alzavo, quel giorno, lessi una scritta sull’armadio: You’re not the Jesus of suburbia. Era la frase di una canzone che riportai sul legno bianco solo per far scena, non perché avesse qualche significato personale. Tuttavia quella mattina camera mia mi sembrava davvero un sobborgo: e io non ero il Gesù del sobborgo. Aprii le ante centrali di quell’armadio a quattro stagioni, e la scritta si divise a metà. Recuperai il primo paio di jeans che mi capitò, rassegnata a vivere un’altra giornata primaverile di terza media. Per lo meno, avrei rivisto quel biondino della II D, Federico. Sorrisi.
Quattro giorni.
Non ero felice.
Non vedevo Federico da mesi, ma non pensavo più fosse rilevante. Avevo conosciuto una nuova band, i Tokio Hotel, e quell’ondata di novità mi aveva distratto dalla cotta per quel ragazzino che mi aveva fatto tanto soffrire. Ormai avevo finito le medie, e la mamma mi aveva iscritta al liceo linguistico. Pensavo che sarebbe cambiato tutto in poco tempo, invece il fato volle che rivedessi proprio lui, a luglio, per le strade di Sesto San Giovanni. Mi ci vollero pochi secondi per capire che non era cambiato assolutamente nulla. Quella sera, pensandoci, piansi di nuovo, poi accesi il computer per andare sul forum dei fans dei Tokio, nel tentativo di distrarmi. Mi capitò sotto il naso una fan fiction, ovvero un racconto che viene scritto da persone comuni sui propri idoli. Restai tutta la notte in piedi a leggere la storia entusiasmante della ragazzina che riesce a conquistare il cantante famoso. Fu così che capii di voler scrivere. L’indomani avrei chiesto a mia madre di mandarmi al classico, e non più al linguistico.
Tre giorni.
Non ero felice.
Due giorni prima del due dicembre, incontrai i Tokio Hotel di persona. Tom, il chitarrista, starnutì davanti a me, e io mi misi a ridere; pochi minuti dopo inciampai, e fu lui a ridere. La cotta per Federico diventò acqua passata, sostituita da quella nuova per Tom, che sapeva starnutire, ridere e piacermi come un qualsiasi altro ragazzo. Un giorno prima del due dicembre piangevo sul libro di greco, perché Tom probabilmente si era già dimenticato di me. Giurai a me stessa che non l’avrei più visto da vicino fino a quando non fossi stata in grado di non essere dimenticata di nuovo.
Il due dicembre, la mia migliore amica Andrea mi lasciò. Lasciò tutti. Lasciò questa terra. Aveva avuto un incidente in motorino il diciotto di novembre, ma io ero stata troppo occupata a pensare a Tom e ai Tokio Hotel per preoccuparmene davvero. Non mi odiai mai così tanto.
Due giorni.
Non ero felice.
Era di nuovo il due dicembre, ma a Brenda non importava. Io la chiamavo “migliore amica”, però lei riusciva solo a pensare a se stessa, pretendendo che pensassi solo a lei anch’io. E di fatto così “funzionava” fra di noi, perché avevo troppa paura di restare nuovamente sola per protestare. La sera leggevo David Copperfield. La vita di quel ragazzo era il mio salvagente, con tutte le sue complicazioni e i suoi dolori. Io lo amavo; io ero Agnes, Tom era David, e la mia vita andava avanti nelle pagine del mio libro preferito, senza Andrea, con Brenda. Intanto scrivevo le mie fan fiction. Fra le mie lettrici c’era una certa Valentina, a cui piacevano le poesie di Eugenio Montale. Da quel giorno, le sue poesie piacquero anche a me.
Standby.
Sapete, l’illusione è un’arma potente. Io ho fatto milioni e milioni di cose nella mia immaginazione; sono stata un politico, un’attrice, una modella, una miliardaria, una viaggiatrice e una scienziata. Anche una supereroina e la moglie del ragazzo che ho sempre amato. Quello che non sa che esisto, che sembra persino un miraggio, se non fosse per le sue foto fissate sotto la scritta You’re not the Jesus of Suburbia e qualche ricordo sbiadito. E mi sono immaginata mentre mettevo a letto i nostri figli con lui di fianco, quando l’indomani avrei preparato la colazione per tutti, prima di andare al lavoro presso la mia multinazionale. Tutti mi amavano e i miei libri erano adorati da chiunque. Non sapevo più cosa fosse la tristezza; mi capitava di pensarci ogni sera, guardando fuori dall’enorme finestra affacciata sulla metropoli di camera mia e di mio marito.
Non ho mai smesso di sognare, per quanto possa sembrare ingenua e infantile. E comunque non penso di essere in grado di farlo; non mi è mai importato di cosa la gente potesse pensare delle mie illusioni, fintanto che nessuno potesse togliermele. Sono cresciuta così, leggendo quattro libri al mese e integrando una parte di ognuno di essi dentro di me, in modo irreversibile. Ho vissuto gli ultimi anni senza aver mai i piedi per terra, o quasi.
E poi, le illusioni si compongono da sole: come tali ci illudono, e sempre come tali si giustificano.
Quando poi mi sono resa conto di quale fosse la verità e quale la menzogna… a dire il vero, non è cambiato nulla.
Se Forrest Gump, ingenuamente, ha avuto la vita più piena che un uomo possa avere, allora io posso anche far finta di essere un po’ speciale come gli eroi dei libri, dei film e dei fumetti, anche senza aver fatto niente di reale.
La fantasia non è nociva; forse contagiosa, ma in senso positivo. Sono una persona normale, e con “normale” non intendo “non diversa”, perché non si può non essere diversi. Anzi, “normale” in un certo senso significa anche “diverso”, proprio perché la diversità è caratteristica di ogni cosa che ci circonda. Quello che voglio dire è che non ho fatto né farò nulla per mettermi in evidenza, non ho fatto e nemmeno vissuto, però ho letto, immaginato, fantasticato. Nella mia testa sono stata la protagonista di storie incredibili. Non sarà stato reale, ma averlo anche solo immaginato varrà pur qualcosa! L’immaginazione ti aiuta a sorridere, ti protegge. Nella mia bolla sono rimasta al sicuro.
Mi hanno detto che “basta il pensiero”, ed è questo che mi rende una persona normale, caratterizzando la mia diversità.
Forse un giorno anche la realtà sarà un sogno.
Un giorno.
Cara Andrea, oggi è il due dicembre di quattro anni dopo. Sono a Malpensa, perché fra tre giorni è il compleanno della mia migliore amica, Valentina, e andiamo una settimana a New York. Ormai siamo amiche da tre anni.
Brenda e Federico non so che fine abbiano fatto. Sono all’ultimo anno del liceo classico e ti penso ogni giorno. Ho letto uno di quei libri di Joe Hill che piacevano a te; avrei dovuto farlo tanto tempo fa perché in effetti mi è piaciuto, come avevi ipotizzato tu dicendomi che “tanto leggo qualsiasi cosa, anche le scritte sui muri per strada”. Ma continuo a preferire Dickens: il libro che sto portando negli Stati Uniti è ancora una volta David Copperfield. È l’ottava volta che lo rileggo, e la cosa entusiasmante è che ci sono sempre nuovi particolari da scoprire, non notati nella lettura precedente, come se il libro mutasse ogni volta. È qualcosa di magico. E David mi fa sempre compagnia; ora è qui di fianco a me che squadra i passanti con un sorrisino appena accennato, e li guarda camminare svelti, andare di qua e di là, mentre noi siamo lenti, assorti nei nostri pensieri. È uno degli amici più veri che abbia mai avuto, sai? Mi è stato davvero vicino quando ne ho avuto bisogno.
Tre settimane fa passeggiavo per via Montenapoleone, perché ero da sola e avevo del tempo libero. Avevo deciso di ammazzarlo guardando le vetrine dei negozi, quando un ragazzo mi venne addosso, facendomi cadere i libri che avevo comprato poco prima in libreria. Aveva un cappello calcato in fronte, un enorme paio di occhiali da sole – ma era nuvolo – e una sciarpa tirata fin sopra il naso. Era molto alto, stretto nelle spalle, e sobbalzai. Poi lui mi disse - I’m sorry - e si chinò a raccogliermi i libri. Non mi servì molto per capire che fosse Tom. Mi restituì i libri e io dissi - Thank You - , semplicemente. Attraverso le lenti, che di colpo non mi sembravano più tanto scure, scorsi i suoi occhi. Non saprei dire quanto durò quel momento, ma fu speciale. Solo dopo che riprese a camminare mi resi conto di quanto forte stesse battendo il mio cuore. Mentre si allontanava, mi chiesi come mai fosse lì a Milano, per strada da solo, e come mai fosse venuto proprio addosso a me.
Ripensandoci, sorrido. Non sono sicura che sia accaduto davvero, forse è solo l’ennesima opera della mia fantasia. Valentina è arrivata, e ora insieme ci dirigiamo verso il nostro cancello di imbarco. Ora le racconterò cos’ho scritto ieri sera, e lei mi ascolterà come Brenda non faceva. Come però facevi tu.
Sai, anche lei ha letto David Copperfield, ed egli di questo è molto felice.
Dalla vetrata si vede un cielo che, pur essendo grigio, mi riempie di serenità, e mi ricordo mattine in cui era esattamente il contrario: il sole spaccava le pietre, ma io avevo freddo e la sensazione che stesse per piovere. Però la mia vita è cambiata in pochi giorni, più o meno due, e non consecutivi. Anche se mi manchi, ora sto bene. Tu continua a popolare i miei sogni, perché è lì che tornerò più tardi, chiudendo gli occhi o aprendo un libro. Ti salutano David e Valentina. Sto immaginando una bambina che ride e corre sorridendo, forse sono io.
Sono felice.
NOTE
Il giorno cinque si riferisce al marzo del 2007;
Il giorno quattro si riferisce ai primi di agosto del 2007;
Il giorno tre si riferisce al trenta novembre, al primo dicembre e al due dicembre del 2007;
Il giorno due si riferisce al due dicembre del 2009;
Il giorno uno si riferisce al due dicembre del 2011. È l’unico a essere stato completamente inventato.
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