Esperienza di lettura - da "Princesa" di Fabrizio De André
Sono Princesa,
sono la vacca,
sono la femmina camicia aperta
che alle tue mani si vuol donare,
una vertigine di piacere dei sensi,
son il sogno proibito d’uomini latenti.
Di me mia madre ha fatto un uomo, donna
invece l’amor mi ha plasmata.
E se alle mie natiche un maschio s’appende,
alla mia bocca la speme s’accende,
che forse la via a me destinata,
da amanti indiscreti è stata lodata, e la vita forse
non mi è stata poi tanto negata.
Chi la vita mi ha donato, infin
l’ha rinnegato, e l’arte d’arrangiarmi
da un bisturi ho acquistato.
Se dei miei sospiri i begli amanti hanno discorso e
delle mie carni hanno cantato
uno fra tutti al mio cuore infranto
delle parole ha donato.
Grande amante il vecchio Faber, fece del mio acquisto
una melodia, che risuona lucente ogni mattina
lungo le strade di Bahia.
Ho pianto un po’, poi ho pianto.
Ho pensato d’esser solo lo stereotipo d’una lesbica in un infinito stereotipo volgarmente chiamato mondo e scientificamente denominato caos.
Ho ripreso a piangere un po’, chiaramente poi ho pianto.
È l’alba, e penso unicamente al fatto che in questo istante vorrei essere nell’uomo che ti possiede e nella donna che questa notte ha goduto di te, spazio cremisi e petalo bianco.
Io, unicamente la macchia ormai sbiadita delle tue lenzuola.
Mi hai fatta uomo.
Dicesti d’esser consapevole che nessun uomo avresti incontrato, mai sarebbe stato come me, era questa consapevolezza ciò che ti distruggeva; così per convenienza di me hai fatto un uomo.
L’uomo mancato che dentro di me da sempre albeggia, l’uomo che non sono né sarò mai.
Merda, per te cambierei d’abito. Saboterei la natura che di me ha fatto donna, per andare a compiacere ciò che tu vorresti io sia. Sono nata sbagliata, in un secolo sbagliato e in un corpo sbagliato. Sbagliato per te, che vorresti un uomo al tuo fianco, sbagliato per me, che al fianco mio vorrei te. Getterei al vento i miei organi, ucciderei quello che sono; donna nel corpo, amore nell’anima.
Ma sai, le operazioni costano, così mi sono dovuta accontentare unicamente di un paio di boxer e un dopobarba scadente, nella vana speranza di illudermi nel tuo viscerale amore.
Pizzi e merletti rinchiusi nel cassetto e una straziante virilità nelle vene.
Tu, essere umano armonico e dissezionato, plasmato a immagine e somiglianza del cosmo del cinico raziocinio. Essere etereo e affabilmente crudele.
E forse erano i tuoi occhi, forse la tua bocca vermiglia o forse le mie mani, ma mi ritrovavo ogni volta a dissetarmi del tuo sapore acre di stagioni tardive e dolce di un fiore di camomilla, linfa vitale delle cartacee pagine del mio cuore.
E t’imploravo; baciami finché avrò respiro, baciami finché non dovrò preoccuparmi dell’involucro che mi occlude il piacere.
Me ne andavo ogni volta così, piangendo, e con ancora il tuo piacere tra le dita.
Piangendo perché t’amo, e non mi passerà.
Raccogli ti prego il mio cuore dilaniato e fanne il soprammobile del nostro amore.
Ora ti guardo, seduta sulla panchina e questi pensieri carezzevolmente strazianti, lasciano il posto alla tua mano.
Follemente ordinaria riprendo posto accanto al tuo cuore, che sorride beffardo alle mie incantevolmente manipolabili paure.
Un pensiero azzardato ripercuote il tuo immane candore; tu sei mia. Adesso sei mia. Poi sarai di qualcun altro.
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