L’ultima lettera
Sul cornicione di acciaio di quell’edificio si era formata della ruggine rossa come il sangue che scorreva in quegli attimi nelle vene di Hugo e Adam. Il marciapiede, da quell’altezza, sembrava un filo di lana grigia, minuscolo. Eppure non era così difficile arrivarci e trovarcisi sopra in pochi secondi. Giusto il tempo per toccare per l’ultima volta il muro freddo di mattoni polverosi, il tempo di guardare Cracovia dall’alto, sopra il fumo delle macchine, sopra le urla della gente. E improvvisamente sentirsi Dio. Poi un canna di fucile attraverso la finestra, il buio negli occhi. Un attimo dopo sentivano già l’aria tagliente sul viso.
Solo poco prima stavano seduti a una tavola in una stanza minuscola in cima a un palazzone. Il sottofondo costante del rumore bianco prodotto dalla radio riempiva il loro silenzio e li lasciava sorpresi ogni qualvolta una parola o una frase usciva dalle grate di quella vecchia radiolina. Il grigio dei muri era deprimente e monotono, anche la città era grigia, sfocata e irriconoscibile. Adam e Hugo, ogni giorno, entrando in casa dopo una giornata di lavoro si guardavano in faccia e potevano indovinare ciò che l’altro stava pensando: la casa era un schifo, il posto di lavoro appeso a un filo e le leggi contro di loro aumentavano ogni ora. Due giorni prima un tedesco per strada, riconoscendoli dalla stella di David ricamata sulla giacca, aveva sputato addosso a loro come se avesse avuto davanti due animali. Le braccia muscolose di Hugo stavano già per infrangersi come onde assassine su quell’uomo, quando Adam aveva fermato quell’azione. L’occhiata che Hugo aveva lanciato al fratello subito dopo, avrebbe potuto pietrificare qualsiasi uomo. Qualsiasi, ma non Adam. Da sempre il più equilibrato e riflessivo fra i due gemelli. Esattamente l’antitesi di suo fratello, impulsivo e dall’animo pericolosamente impetuoso. L’uno sempre pronto ad agire e l’altro sempre attento a come agire. Era già il terzo mese dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali che, come annunciato, avrebbero presto ricevuto consensi in tutti gli Stati del mondo. Adam e Hugo erano due dei pochi uomini ebrei a capire la serietà della situazione, mentre la massa di ottimisti instancabili non perdeva occasione per rassicurare la comunità con frasi come : - È un periodo strano…presto si accorgeranno che si stanno sbagliando.
Ma la convinzione con la quale “i grandi uomini” disprezzavano gli ebrei era troppo marcata, troppo decisa.
Durante le sere buie di Cracovia il suono penetrante di un allarme aiutava tutti a capire quando era il momento di fare scorrere la paura nelle vene. Tutti in quei momenti scappavano senza guardarsi intorno, senza accorgersi veramente di ciò che stava succedendo.
La mattina quando ci si svegliava capitava di vedere il palazzo vicino al proprio completamente vuoto, come se tutti fossero morti. Ma in quei palazzi gli unici morti erano quelli che avevano tentato la fuga o si erano ribellati. Infine, rimanevano solo carte sparse per terra insieme a vestiti, mobili, strumenti musicali e bambole. Adam e Hugo sapevano dove tutta quella gente era andata. Tutti gli adulti lo sapevano e tentavano in tutti i modi di nasconderlo ai bambini che ogni giorno vedevano sparire uno dei propri amici dal gruppo. Si parlava di lavori forzati, di capannoni sudici nel mezzo del nulla, pieni di gente come loro che cercava di sopravvivere. Si parlava di giornate in cui il sudore della fronte era ripagato con una ciotola di latte da condividere in tre e di lunghe marce. Così lunghe che quelli che vi partecipavano non tornavano più. Parlavano di posti in cui un lungo filo spinato divideva il mondo in due e lasciava fuori la libertà di chi vi era intrappolato.
Adam e Hugo ci credevano, sapevano che tutto era vero. Vero quanto le lettere in orrenda carta gialla delle persone che scrivevano da quel luogo e che loro due dovevano smistare. Dividere le lettere gialle da quelle bianche. Questo era il loro lavoro. Tutte quelle bianche arrivavano probabilmente a destinazione mentre quelle gialle, provenienti dal campo di concentramento di Auschwitz, riuscivano ad arrivare soltanto fino a quell’ufficio postale dove venivano bruciate inesorabilmente, con sconcertante noncuranza. Ciò che rimaneva, vicino alla porta posteriore del palazzo, era un cumulo di cenere che veniva presto spazzato via da chi era addetto.
Ogni lettera gialla che passava fra le mani di Adam e Hugo li spingeva a cercare sempre più in fretta una via di uscita da quella trappola. Avevano pensato più volte di scappare dalla città, ma avevano realizzato di non avere un posto dove rifugiarsi né una persona che li avrebbe aiutati. Lì fuori non c’era nessuno che si preoccupava per loro, le vite di due ragazzi erano solo briciole. Le settimane passavano e i palazzi del viottolo dove loro abitavano si svuotavano uno a uno, lasciando l’isolato silenzioso e morto, lasciando posto al rumore dei miagolii dei gatti che si accampavano sulle rovine di una comunità inghiottita dalla crudeltà.
La soluzione al loro problema arrivò appena in tempo.
Ancora seduti davanti al tavolo, Adam e Hugo sentirono il suono acido delle ruote di un camion sulla strada, poi mani veloci lungo la ringhiera di ferro delle scale e il rimbombo di tacchi di stivali sugli scalini bianchi.
Essi avevano già organizzato tutto. Dopo uno scambio di sguardi pieno di panico e di coraggio allo stesso tempo, cominciarono a praticare una serie di azioni meccaniche e calcolate, come in una catena di montaggio. Mentre si muovevano per la stanza, guardavano punti indefiniti come ipnotizzati da un pensiero che occupava ogni neurone nel loro cervello. Controllavano tutti i più piccoli particolari della casa con una meticolosità nervosa. La tavola in mezzo alla stanza era già apparecchiata per la cena e il vetro di una bottiglia verde rifletteva la luce della lampadina accesa che penzolava dal soffitto; quando sentirono le voci nervose e rabbiose dei militari dietro la porta, Adam e Hugo misero uno per volta il piede sul davanzale della finestra e in un attimo si ritrovarono uno vicino all’altro, appiccicati come due sagome pitturate sul muro del palazzo. In quell’attimo, mentre si stringevano forte le mani, Adam ripensò all’ultima volta che erano andati in montagna e avevano mangiato la neve fresca insieme, all’ultimo Natale con i genitori. Poi si tuffarono nel buio.
I militari entrarono nell’appartamento con foga, tirando per aria tutto ciò che avevano davanti e sparando proiettili inutili, perforando ogni millimetro della stanza. Capirono di essere i soli lì dentro solo quando notarono una busta gialla aperta sul tavolino. All’interno di essa c’era un foglio giallastro che recava la scritta: Rimarremo liberi. Sempre.
Uno di loro, forse il capo, lesse ciò che c’era scritto in silenzio e dopo aver gettato per terra quel pezzo di carta uscì dalla porta calpestando le macerie. Il ragazzo che gli stava dietro fucilò quel disperato testamento con la cattiveria negli occhi e un folle sorriso sulle labbra.
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