Ogni singolo respiro
Oggi Davide non si è fermato subito al campo, ma ha pedalato fino al laghetto lì di fronte. Vicino alla riva, noncurante della terra sulle sue nuove scarpe da tennis, si è chinato sull’acqua e ha osservato il suo riflesso: riccioli scuri, viso abbastanza regolare, naso sottile e un sorriso appena accennato. I suoi occhi, quando c’è il sole, da marrone chiaro diventano verdi. Se si guarda attentamente si può osservare che la pupilla, scura e profonda, sembra quasi pulsare e che il colore vivo dell’iride è attorniato da moltissime pagliuzze di un brillante verde, che contrastano con il bianco puro dell’occhio…
Il campo di grano dietro alla collinetta del parco è un posto conosciuto da poche persone perché è nascosto dagli alberi che lo circondano. Un luogo adatto per i solitari e per le coppiette, insomma.
Quando è arrivato, appoggiata la vecchia bicicletta del nonno per terra, Davide cammina un po’ in mezzo alle spighe e si sdraia con il viso rivolto al cielo.
Attraverso le grandi foglie dell’imponente ippocastano il blu sembra così puro, vivo, infinito.
Le spighe di grano sono oggi alte, cresciute con l’arrivo della primavera, come nelle pubblicità alla televisione: l’unica differenza è che è tutto reale.
Questo campo è una delle cose per cui Davide è contento di essere al mondo: un piccolo stralcio di paradiso, così tranquillo e lontano dai problemi. Lì ti puoi permettere di pensare a tutto o a niente, di lasciare che i pensieri vaghino da soli, o puoi respirare lentamente ascoltando il fruscio dell’erba, simile a un sussurro.
Sullo zaino sbiadito e sgualcito, buttato di fianco alla bici, sta camminando una piccola formica. Dentro allo zaino ci sono spiccioli (quelli rimasti dopo aver pranzato, forse qualche centesimo), il lettore mp3 con una cuffia quasi rotta, un coltellino svizzero, un pacchetto con tre sigarette e un accendino giallo, un quadernino per appunti in veste di diario, una mela e il libro di filosofia di scuola.
Non ha voglia di mettersi subito a studiare, così prende il suo mp3 dallo zaino, si sistema le cuffie e preme il tasto play. Riproduzione casuale.
Non ci vuole molto per riconoscere la canzone: una voce che sospira, poi una nota si distingue e si innalza, seguita da un’altra e un’altra ancora, lentamente, come in un sogno dove si distinguono appena i contorni delle figure. Poi verso la fine dell’intro, in un crescendo regolare dove le note aumentano di intensità e velocità, si stabilizza un motivo di chitarra, andando a formare una melodia semplice ed efficace.
Questa è la magia della musica: questa è Hallelujah di Jeff Buckley, scritta in origine dal cantante Leonard Cohen e poi meravigliosamente arrangiata.
Quante volte Davide aveva provato a suonarla: ogni volta non si sentiva mai all’altezza.
Jeff è uno dei suoi idoli, o meglio lo era, perché è morto.
A scuola Davide non è un genio, ma se la cava discretamente. Tranne in matematica e in storia, che trova noiosa, nella altre materie ha la sufficienza piena. Paradossalmente l’unica storia a cui Davide si sia mai interessato è quella delle grandi rock band; gli piace navigare in internet a cercare la vita dei cantanti più famosi.
Ma ancora di più vorrebbe sapere tutto riguardo alle loro morti misteriose. Una volta, lo ricorderà sempre, in un tema a scuola aveva preso nove raccontando per filo e per segno la morte di Kurt Cobain, front man bello e maledetto del noto gruppo Nirvana.
Per questo motivo, mentre la voce idilliaca di Jeff canta quasi sussurrando la prima strofa, Davide non può fare altro che essere trasportato indietro nel tempo, fino al 29 maggio del 1997.
Nella città di Memphis, Tennessee, Jeff Buckley sta uscendo con un amico di nome Keith. All’epoca il cantante ha già pubblicato da tre anni il suo primo e unico album, Grace, che gli basterà per entrare nell’Olimpo del rock’n’roll e rimanerci per sempre.
Quella sera Jeff e Keith si stanno dirigendo allo studio di registrazione (è infatti in programma un nuovo disco della band), ma purtroppo non ci arriveranno mai. Infatti si perdono, e Jeff propone di andare giù al fiume.
Arrivati, l’artista si immerge nell’acqua scura cantando Whole Lotta Love dei Led Zeppelin, senza togliersi gli scarponcini perché non voleva sporcarsi di fango. In quel momento sta passando un rimorchiatore che provoca delle pericolose onde. Keith, rimasto sulla riva, si distrae per un attimo, ma quando guarda nuovamente il fiume Jeff è scomparso: inghiottito dal vortice creato dal rimorchiatore.
Il corpo del cantante è appesantito dai vestiti, dagli scarponcini bagnati e dalle chiavi che gli piace collezionare e che porta sempre in tasca.
Il cadavere verrà ritrovato pochi giorni dopo da una barca di passaggio. Dall’autopsia non si rivelano nel corpo tracce significative né di droga né di alcol.
Buckely è annegato, inghiottito dalle onde mentre cantava d’amore: aveva solo ventisette anni.
La strofa segue il ritornello, e Davide canta sottovoce la parole che ormai sa a memoria.
Come si può non innamorasi già dal primo ascolto della voce delicata di Jeff piena di emozioni? Hallelujah è uno di quei pezzi che ti entrano dentro.
La chitarra che lo accompagna si amalgama perfettamente con la voce, provocando un effetto che non si può descrivere a parole. L’alternanza di strofa e ritornello è regolare, la voce cresce di intensità verso il centro del pezzo per poi ritornare quasi un sussurro.
Il contrasto tra testo e musica dona al pezzo un’intensità emotiva notevole: in una sorta di preghiera, l’autore esprime la sua frustrazione nei confronti dell’amore, spesso causa di torture.
La lirica parla di un amore tormentato, come tormentata è la voce di Jeff che, dopo un delicatissimo assolo di chitarra, canta (in traduzione dall’inglese): Forse c’è un Dio lassù, ma tutto quello che ho imparato dall’amore è come colpire qualcuno che ha sguainato la spada prima di te; non è un pianto quello che senti di notte, non è qualcuno che ha visto la luce, è un freddo e un grave hallelujah.
È impossibile stancarsi del canto sublime di Jeffrey Scott Buckley, congelato nell’immagine collettiva di rock star ventisettenne, che venne addirittura definito da Bono degli U2 una goccia pura in un oceano di rumore.
A questo pensa un ragazzo disteso in un campo di grano, con i capelli spettinati e i pantaloni sporchi di terra, mentre sussurra a mezza voce le parole della sua canzone preferita.
Una lacrima gli scivola sulla guancia, il cielo blu sopra di lui.
L’ultima nota sta per essere suonata.
E proprio in quel momento, al secondo 6'53" del display luminoso, quando la canzone termina per lasciare spazio al grande silenzio, Davide capisce che la musica è molto di più di una serie di fredde note.
La musica risiede in noi, è espressione dell’anima, da quando ogni nostro singolo respiro è diventato un hallelujah.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni