Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
14ª edizione - (2011)

Esperienza di lettura - da "Novecento" di Alessandro Baricco

Non so di preciso quand’è stata la prima volta che ho messo piede sul Virginian, ma quando ci sali per la prima volta… be’, amico, fai fatica a scenderci.
Mettiamo subito in chiaro una cosa: io odio viaggiare, okay? Tutto quel fare-disfare i bagagli, sorbirsi code chilometriche per prendere i biglietti, gente che spinge, gente che tira, gente dappertutto. Puah!
Emma, la mia amica, sapeva che avevo un intrallazzo con un uomo che non era adatto a me. Così decide di sorbirsi due ore di coda e ordinare due stupidi biglietti per navigare su una nave da quattro soldi. Ma non posso decidere io della mia vita? Va bene, ormai sto invecchiando e dovrei piantarla con ‘sta storia degli intrallazzi, ma cosa ci posso fare?
Comunque Emma, la mia amica, si presenta a casa mia con ‘sti biglietti d’imbarco: partenza tre giorni dopo su un piroscafo chiamato Virginian. Bah! Ero così elettrizzata, tanto per farvi capire con quale entusiasmo mi preparavo all’avventura, che ho fatto fare i miei bagagli a Emma, la mia amica. Non volevo partire ed ero determinata a non muovere un dito. Tanto per rallentare un po’ i tempi.
Andiamo, era estate, si moriva di caldo e l’ultima cosa che volevo era la fatica di una partenza. Senza alcuna destinazione, oltretutto. Emma mi aveva tenuto all’oscuro di tutto il suo piano malefico.
All’alba del terzo giorno si presenta puntuale e suona insistente il campanello del mio appartamento. E va bene, arrivo.
Prendiamo e andiamo al porto. C’è tantissima gente. Gente che spinge, gente che tira, gente dappertutto. Ci imbarchiamo. La terza classe non era granché, ma non potevamo permetterci altro. La nostra camera dovevamo condividerla con altre tre donne sulla cinquantina. Tanto per tirarmi su il morale, ero la più vecchia, con i miei cinquantaquattro anni suonati. Ma non importa.
Comincio a disfare la mia valigia e ascolto i discorsi delle mie compagne di stanza su un certo Roll Morton. Anzi no, Jolly Roll Morton.
- È un gran bell’uomo! - dice una.
- Sei troppo vecchia per queste cose! - ribatte l’altra.
- Ma stai zitta! Cosa vuoi capire tu della vita! - risponde.
Cose di questo genere. È incredibile: quando una persona diventa anziana, vuole tornare a essere giovane. È quasi ridicolo.
Comunque dicevano che questo tizio aveva inventato il jazz, o roba simile. Suonava lì, sul Virginian. Quella sera stessa. Dato che né io né Emma avevamo qualcosa di interessante da fare, avevamo deciso di andare a vedere ’sto tizio che suonava.
- Cosa pensate di fare, scusate? Ah, ah! Non potrete vederlo dato che suonerà in prima classe! Noi siamo solo delle povere sfigate, amiche mie, ascoltate me! -
Wow! Che positività. Be’, a ogni modo non ero molto entusiasta. Anzi.
Dato che Emma comincia a discutere con le nostre compagne di stanza, decido di andare sul pontile per vedere meglio il mare. Mi accosto alla ringhiera e prendo una sigaretta dal pacchetto quasi vuoto. Cerco l’accendino e… maledizione, non lo trovo. Non ce l’ho, l’ho perso. Adocchio un tale seduto su una panchina che mi dà le spalle. Mi avvicino.
È un uomo sulla sessantina con i capelli grigiastri, tutto vestito bene con una sigaretta in mano. Mi siedo accanto a lui e gli chiedo se, per favore, mi può prestare un accendino.
- Io non parlo con le povere sgualdrinelle come te - mi risponde.
- Be’, lo sta facendo, invece - rispondo io.
Sta zitto. Mi guarda.
- Okay - dico - Non è un problema.
Faccio per alzarmi e andarmene, ma mi giro di scatto e afferro la sua sigaretta. La metto contro la mia fino a quando si accende del tutto. Mi fissa sorpreso, schifato, incazzato.
- Grazie - gli dico e gliela restituisco.
Mi risiedo. Ascolto il rumore rilassante delle onde che vengono smorzate dalla nave, il sole che picchia sulla mia faccia, la brezza che soffia leggera…
- Come si chiama? - mi chiede.
- Dafne.
- Io Roll Morton. Jelly Roll Morton.
Faccio finta di non riconoscere il suo nome e cominciamo a parlare di cose normali. Ma questo non toglie il fatto che si era comportato da stronzo con me.
Comunque sia, la mia sigaretta era finita da un pezzo e avevo voglia di tornare in cabina. Ci salutiamo. Comincio a scendere gli scalini e Morton mi ferma: - Mi hanno detto che c’è un tale, qui, su questo schifo di nave, che suona il piano da dio. Tutte stronzate! E stasera glielo mostrerò. Allora, verrai?
- Ci penso - rispondo. E me ne vado.
Decido di andarci, non ho nient’altro di interessante da fare. Emma è stanca, non ha voglia di venire. Le altre mi prendono per il culo perché sono solo una povera stracciona. Come loro del resto.
Avevo voglia di andare a vedere Morton non perché m’interessasse veramente: ero curiosa per l’altro pianista, il tale che suona da dio il piano. Pura curiosità.
Entro in questa stanza enorme, ricchissima, sfarzosa, luminosa. Quando Morton arriva elegantissimo, in nero, tutti smettono di fare quello che stavano facendo.
In mezzo alla stanza c’è un uomo seduto al pianoforte. Ha sì e no trenta anni, e ha l’aria così sola e indifesa che mi viene voglia di andare là ad abbracciarlo. Non alza un attimo lo sguardo dal pianoforte. È come se stesse leggendo tantissime storie diverse in quegli ottantotto tasti bianchi e neri.
Morton vuole cominciare la sfida e, in malo modo, fa spostare l’altro sfidante.
Suona un ragtime scivoloso. Non mi piace molto, soprattutto perché ho un gruppo di “galline” al mio fianco che non mi permette di ascoltare e che continua a sussurrare un numero. Bah.
L’altro sfidante suona una canzone per bambini. O così sembra. Non è un gran pezzo. Carino, tutto qui.
Morton attacca un blues e le “galline” rincominciano: - Vedrai, Novecento ci rimarrà secco stasera! Il mio Jelly è il migliore.
- Mi scusi, chi sarebbe Novecento? - mi intrometto.
- Quel poveretto che sta sfidando Morton, no?
Novecento. Che razza di nome!
- E quanti anni ha questo Novecento? - chiedo.
- Ventisette se non sbaglio. O no, Clarissa? E si raccontano storie strane su di lui del tipo che sia nato sulla nave.
Ventisette. Sulla nave. Battito.
- E… il suo cognome… lo sa? - balbetto.
- Non ha un cognome! È un trovatello. E si dice che dalla nascita non sia mai sceso da questa nave! Che idiozia! Ventisette anni su uno stupido piroscafo! - e ride sottovoce.
Trovatello. Mai sceso dalla nave. Non ha un cognome. Ha ventisette anni e probabilmente anche il suo nome è inventato.
Toccava di nuovo a quel tale, Novecento. Parte una canzone magnifica, pazzesca, velocissima. Sembra che sia suonata a quattro mani ma, giuro su Dio, le mani sono due. Non respiro più, non riesco più a pensare a niente. Mi sento come se facessi parte dell’Oceano. Le onde che mi sommergono insieme al disperato tentativo di rimanere a galla. Le ultime note sono così dure e forti che mi sento soffocare da una gioia strana, ritrovata.
Quando ritorno in me, sto piangendo come una scema. Tutti sembrano essere finiti in posti diversi e tutti hanno bisogno di un attimo per riprendersi.
Poi si scatena l’inferno, un casino indescrivibile. Non s’era mai vista una cosa così. Bevo un bicchiere di whisky e urlo per dare voce alla mia felicità immotivata.
Torno in camera e trovo Emma ancora sveglia.
- Com’è andata? - mi chiede.
- Benissimo! Dovevi vedere! Cazzo, c’era un pianista…! Sembrava Dio, te lo giuro…
- Novecento? - chiede.
- Sì, maledizione! Perché tutti sanno tutto di ‘sto tizio e io non so un bel niente? Sai che ho scoperto che è un trovatello? E che ha 27 anni? E che non è mai sceso da questa nave? Non vorrei dire una stronzata amica, ma… puoi solo immaginare che strana coincidenza potrebbe essere? Voglio dire… non credo in Dio, okay? Perché dovrebbe farmelo trovare davanti? Non può essere lui! - Comincio a piangere.
- Dafne. C’è un motivo per il quale ho scelto questo buco di merda, va bene? Novecento ci suona qui tutte le sante sere. Ti ricordi che tua mamma ti aveva chiamato? Cosa ti aveva detto?
- Di prendermi una settimana di riposo e di stare attenta alle sorprese.
- Esatto. Lei prima di chiamare te, ha chiamato me dicendomi che Novecento forse poteva essere…
- No, non dirlo, per favore… - dico io.
- Va bene. Ma aveva un forte sospetto, capisci?
- Come faceva ad avere questo sospetto? - chiedo io, sempre più in ansia.
- Perché è stata lei a portartelo via e a metterlo in una scatola! L’ha lasciato su un pianoforte di una nave quando non aveva nemmeno dieci giorni!
- Cosa?! Come ha potuto! Quella stronza…! - urlo io.
- Avevate problemi economici, Dafne! Come avreste potuto mantenerlo?
Rincomincio a piangere. Lei mi abbraccia e mi dice: - Mi dispiace che sia andata così. Ma c’è un modo per sistemarle cose, e tu lo sai vero?
Annuisco meccanicamente.
Oh Dio, se esisti, aiutami tu. Ti prego. La mia vita è un disastro totale. Illusioni, delusioni, dolori. Sempre così e sempre nello stesso ordine. Questa volta, però, c’è una svolta, un cambiamento per risolvere tutto. Dio, sostienimi.
Ritorno sui miei passi ma nella stanza lussuosa di prima non c’è la persona che cerco. Disperazione. Corro in qualsiasi direzione. Penso a un posto che conosco: il pontile.
È notte, non vedo niente e sono stanca. Ma non mollo.
Qualcuno mi tocca leggermente la spalla. Mi giro, spaventata e vedo un tale. Un tale inconfondibile: Novecento.
- Non avere paura. Vieni. - mi dice.
Io non mi muovo. Sento solo il cuore che palpita impazzito nella notte.
- Ti fidi di me? - mi chiede, tendendomi la mano.
Annuisco lentamente afferrandola. Al tocco della sua mano, mi ritorna in mente il momento in cui lo stringevo tra le mie braccia, affettuosamente. Quel tepore, quella delicatezza, quelle mani di dio.
- Io… - comincio. - Tu non sai chi sono io, ma…
Novecento si porta le dita alle labbra facendomi capire di star zitta.
- Chiudi gli occhi e ascolta la musica che il mare crea per noi
Per rispondere al mio sguardo disperato, Novecento mi tiene entrambe le mani e ci appoggiamo alla ringhiera.
Chiudo gli occhi. Ascolto ma non capisco nulla. Poi, ascoltando meglio, sento nella mia testa la stessa canzone che avevo sentito poco prima, quella di Novecento. Mi sento così bene che inizio a sorridere. Sono una sirena. Sento l’acqua che mi scorre tranquilla tra le dita, i capelli morbidi e liscissimi. Non ho ancora aperto gli occhi per guardarmi in giro. Li apro ed ecco lì, tutto quello che stavo cercando. Gli occhi di Novecento sono tutto l’Oceano che ci sta attorno.
Novecento sorride e ci abbracciamo, in un abbraccio eterno.
- Credo di sapere il motivo per il quale sei venuta a cercarmi - mi dice, sorridente.
Io piango. Ripenso al dolore di tutti quegli anni che mi aveva lacerato internamente. Ho lo stomaco sbrindellato, il cuore ricucito in qualche maniera, l’anima ammaccata. Oh, Dio, ti ringrazio di avermi sostenuto. Se Novecento esiste, anche tu esisti.
Lo guardo dritto negli occhi e gli dico: - Io sono tua madre.
L’ultima parola, la più importante, la più felice ma la più dolorosa, la dice anche Novecento, insieme a me. Piango di felicità ritrovata. E anche lui piange nell’abbraccio infinito del nostro affetto.
- A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave. Con te, mamma.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010