Il gatto nero
di Giulia Rovelli
Primo premio
Le luci a poco a poco ripresero ad apparirmi umane.
Il dolore sordo scomparve lasciando dietro di sé strascichi velati di un odio che mai avrei dimenticato.
L’infame atrocità che mi era stata inflitta mi ghermiva come un falco agguanta un topolino: il mio animo era rovente, traboccava di un furore cieco quanto il mio occhio ormai perduto.
E dire che a lui, almeno un tempo, volevo bene: era il mio padrone, ma prima di tutto era il mio migliore amico.
Leccarmi le ferite questa volta non serviva a molto; lo squarcio lo avevo nel cuore: il suo tradimento mi rese intrattabile, più animalesco di quanto non fossi mai stato.
Capii che provavo un malsano piacere a farmi trovare la mattina ai piedi del suo letto esponendo il mio sfregio in bella vista; lo facevo perché ricordasse, con un senso d’orrore e rimorso, il delitto commesso.
Spesso avevo assistito a scene di violenza.
Il mio padrone diceva sempre che l’alcol è il peggior nemico dell’uomo, ma chi fugge davanti al nemico è solo un vigliacco.
Affogato nel suo malessere, ubriaco quasi tutte le sere, picchiava la moglie, maltrattava i conigli, il cane e la scimmietta. Mai me.
Non aveva mai mosso un dito contro di me, il suo Pluto, il suo preferito.
Non gli permisi mai più di toccarmi, né di avvicinarmi perché non mi fidavo più delle sue mani: si erano sempre avvicinate per coccolarmi, ma sulla carne mi si era impresso per sempre il ricordo dell’unica volta in cui mi avevano stretto alla gola per l’orribile mutilazione.
L’avversione, o meglio la perversità, ci rovinò per sempre entrambi.
Forse non sopportava la mia vista per il ricordo che gli suscitava e il senso di colpa opprimente e crudele, tuttavia un giorno mi agguantò e mi mise un cappio al collo per impiccarmi al ramo di un albero.
Mentre mi agguantava, in quella che per me aveva l’odore di una morsa mortale più che di un ultimo abbraccio, piangeva.
Piangeva perché forse sapeva in cuor suo che stava facendo del male per il male; quello stesso che forse mai gli sarebbe stato perdonato, ma per ora, il suo interesse era allontanarlo, fingere di aver dimenticato.
Della notte seguente non ho ricordi, so solo che scoppiò un grande incendio, ma non morì nessuno; sarebbe stato troppo facile altrimenti, non credete?!
La casa venne rasa al suolo eccetto una parete, quella della camera da letto del mio padrone e a troneggiarvi nel mezzo c’era la mia sagoma impressa sul muro.
La sagoma della mia impiccagione.
Fu in quel momento che, non so né come né dove, compresi che mi sarei fatto strumento della sua dannazione.
Consideratemi come volete: un’anima, un fantasma o un demone. Nemmeno io so dirvi cosa sono.
Povero piccolo ingenuo, cercava di trovare macchinose spiegazioni per convincersi che il mio calco impresso sulla parete fosse frutto della pura casualità e avesse una spiegazione razionale.
All’allarme dell’incendio, il giardino è stato invaso dalla folla e alcuni devono aver staccato l’animale dall’albero per gettarlo, attraverso una finestra aperta, in camera mia per svegliarmi. Il crollo di altri muri ha schiacciato la salma contro la parete, sino a impregnarne l’intonaco fresco; e poi la calcina, sotto l’azione delle fiamme, combinata con l’ammoniaca della carogna, ha creato l’effigie.
Povero piccolo, piccolo ingenuo.
Una sera ci incontrammo di nuovo.
Non avevo più un nome, non un padrone né un’identità.
Ero solo il gatto nero che sedeva sulle casse di gin di quel locale infame.
Sapevo che un giorno lui sarebbe tornato da me, e infatti accadde così: noi gatti abbiamo un sesto senso.
Quando ci incontrammo, per lui, fu di nuovo amore a prima vista, ma non mi riconobbe: in fondo non ero cambiato molto, ero sempre tutto nero, con l’unica differenza che il pelo sulla mia pancia aveva iniziato a diventare sempre più opaco fino a diventare di un candido color bianco.
Era una chiazza estesa, ma senza una forma ben definita.
Poco male, il cambiamento non mi dispiaceva.
Ero guercio, e forse fu proprio questo a convincere il mio padrone che non poteva far altro che avvicinarsi a me e accarezzarmi con tutto l’affetto possibile: gli suscitavo un ricordo.
Mi portò nella sua nuova casa e subito mi ambientai; ero tenero e dolce con lui come non lo ero mai stato e anche sua moglie mi adorava; tuttavia, avevamo un conto in sospeso.
Stavo in agguato aspettando il giorno in cui quell’antico sordo odio sarebbe tornato a galla a divorargli nuovamente l’animo; infatti, fu proprio così.
L’antipatia crebbe di nuovo fino a travolgerlo: ormai era un odio incurabile, quanto la furia che presto scatenò nuovamente su di me.
All’inizio percepivo la sua avversione, il suo continuo evitarmi e palpavo il suo pentimento per avermi portato a casa sua la sera del nostro incontro.
Mi divertivo, lo stuzzicavo e giocavo a provocarlo.
Malsano piacere da gatto, lo graffiavo timidamente sul petto o gli ruzzolavo tra i piedi per farlo inciampare, come per invogliarlo ad afferrarmi e a stringermi di nuovo alla gola.
Adoravo sua moglie, buona e sempre cara con me; spesso mi chiesi come un mostro del genere potesse essere legato a una creatura così docile e bella.
Sapevo che il mio padrone aveva paura di me.
Aveva paura forse più di me che di se stesso o del suo peccato: sapeva di non poter sfogare la sua rabbia su di me, la pena sarebbe stato il tormento.
Passiva e schiacciata dalla sua mostruosità fu la moglie.
Una mattina la prese a colpi d’ascia, invaso da una furia inspiegabile, ma stranamente capii presto che il senso di colpa provato in quel momento era stato molto inferiore rispetto a quello provato nei miei confronti.
Rimuginò per tutta la notte su come occultare il cadavere e Dio solo sa quali e quante atrocità macchinò.
Decise di murarla nel finto camino della cantina.
Quand’ebbe finito, assaporò un piacere nuovo che aveva il sapore della ruggine antica.
Mi leccai i baffi: aveva ucciso ancora.
Il muro non dava il minimo segno di ritocco e la spazzatura fu raccolta da terra con la massima cura possibile.
Si guardava attorno con aria trionfante, povero piccolo illuso.
Aggrappato con le unghie a una trave della cantina sapevo che di lì a poco sarebbe venuto a cercare la bestia che gli aveva provocato in corpo tanta malvagità: me.
Era deciso più che mai a mettermi a morte; il puzzo di quella furia l’avevo già sentito una volta.
Non era stato piacevole.
Sparii.
Sentivo il profumo della mia vendetta che si avvicinava, mi inebriava le narici e mi accarezzava dolcemente il pelo fino alla punta della coda.
Attesi pazientemente il momento opportuno per fargliela pagare una volta per tutte.
Passarono i giorni ed ero sempre sparito; lui credeva che fossi scappato e sono certo che il pensiero lo consolasse più che mai.
Probabilmente, stava bene nella peccaminosa convinzione che sarebbe andato tutto come era nei piani: nessuno lo avrebbe mai scoperto.
La polizia cominciò a fare indagini e quando i poliziotti giunsero alla sua porta si sentì sicuro dell’introvabile nascondiglio che aveva prescelto.
Il senso di colpa era sparito, o forse non era mai nato. Chi può saperlo? Non certo un gatto!
Finalmente, per la terza o quarta volta, scesero in cantina.
Sentivo che il cuore del mio padrone batteva calmo come quello di chi dorme un sonno innocente, mentre il mio fremeva come una grancassa.
Volle sfidare la sorte, impavido e convinto della riuscita del suo piano.
- Signori, - disse alla fine, - Signori miei, questa è una casa molto ben costruita… cosa vi pare della mia nuova fantastica cantina appena ristrutturata?
Picchiò forte con un pugno su quella parte che celava il cadavere della sua povera moglie.
Mi pervase la frenesia.
Tump Tump Tump
Iniziai a sentire il mio battito nelle orecchie finissime.
Ero lì.
Potevo vederlo e sapevo che poteva sentirlo anche lui.
Nella sua mente si fece largo questo suono incessante: il rumore di un cuore che batteva e risuonava sempre più invadente e pulsante.
Sempre più, sempre più.
La sua espressione cambiò e divenne infuocata: non capiva da dove venisse quel suono infernale.
Si portò una mano alla testa come per nasconderla e la stritolò accasciandosi ai piedi della parete come se trattenesse un enorme dolore.
Il battito era diventato veloce come un frullo di ali, ma a un tratto cessò e, immediatamente, si disegnò una pace lieta sul suo volto.
- Vogliate scusarmi, sapete, soffro di emicrania.
Ma in quell’istante un ululato, un grido lamentoso, a metà tra l’orrore e il trionfo si levò… dal muro!
La parete miagolava.
Io miagolavo come un dannato.
Ricordo il rumore dei pugni che iniziarono ad abbattere il muro e il viso inorridito e schiacciato del mio padrone che mi vide appollaiato sul viso della donna che aveva amato, stregato, oppresso e poi ucciso.
Sulla testa, le rosse fauci spalancate e l’occhio singolo in fiamme, con la voce accusatrice e acuta come solo un miagolio sa essere. Condannato al boia.
Avevo messo il mio mostro con le spalle al muro.
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