Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
13ª edizione - (2010)

L'Alternativa

La sveglia era già suonata ma tenni la testa sotto il cuscino ancora qualche istante. Le palpebre strizzate, la bocca serrata e le mani a premere forte il guanciale sulla mia testa. No, non sarei uscita di lì, proprio non mi andava. Stavo così bene sotto il mio lenzuolino, con la luce fioca e solo il suono della doccia che…
"Forza, svegliati!" l'irruzione di mia madre nella camera fermò i miei pensieri "Non vorrai mica perdere proprio il primo giorno?!".
Il mio grugnito di risposta lasciò intendere tutto il contrario, ma mi decisi a mettermi seduta in ogni caso. Insomma, tanto volente o nolente ci sarei dovuta andare comunque, quindi perché perdere tempo per poi essere costretta a fare tutto di fretta? Esatto, non ne valeva la pena.
Quel giorno era lunedì. Ma non un lunedì qualsiasi, era lunedì 14 settembre 2009, e di lì a un paio d'ore sarebbe iniziato il mio ultimo primo giorno di scuola. No, è inutile che facciate dell'ironia, ero stata bocciata già una volta e non avevo proprio nessuna intenzione di lasciar accadere la cosa di nuovo, l'anno successivo ci sarebbe stata l'università e, quindi, quello sarebbe stato davvero il mio ultimo primo giorno di scuola.
Trascorsi il successivo quarto d'ora a rendermi vagamente presentabile e a scegliere qualcosa che non mi facesse domandare da tutti se mi ero svegliata convinta di essere in una località marittima. Mandai giù a forza un paio di Ringo al cioccolato infilandomi le scarpe. Afferrai un quaderno già iniziato e il diario dell'anno scorso –che tanto, si sa, il primo giorno non servono a nulla- per poi infilarli nella borsa già riempita da entità misteriose ai più.
"Ma', puoi prendermi la bici?" le urlai da una stanza all'altra, cercando così di guadagnare qualche secondo prezioso al ritardo che lentamente stava aumentando. Non avevo ancora iniziato ad allacciarmi le scarpe che lei era già sulla soglia della porta del salotto, con un'espressione indecifrabile sul volto. Le scoccai un'occhiata perplessa e guardai oltre le sue spalle: "L'avevi già presa? Non la vedo…", borbottai mentre ancora maneggiavo i lacci alla cieca e cercavo invece di vedere la mia fidata bicicletta all'ingresso di casa, dove evidentemente non c'era. Accennai un sorriso con le labbra prima che mia madre potesse rispondermi, cercando di nascondere la leggera scocciatura.
"Ehm, scusa, torna pure a dormire. Pensavo, tu…" ma, mentre riportavo lo sguardo sui lacci, fu lei stessa a interrompere le mie succinte scuse: "Non avevamo detto che ti accompagnavo io?".
Conclusi finalmente il secondo e ultimo fiocchetto. "Uh… Ah sì? Certo… certo, giusto." L'assecondai senza pormi tante domande -in fondo un passaggio sarebbe solo stato comodo- e in pochi minuti eravamo già in macchina.
"Sei sicura di andare bene vestita così?", mi domandò squadrandomi dalla testa ai piedi, nell'attesa, ferme ad un semaforo.
Distolsi lo sguardo dalla strada portandolo su di me e scostai le braccia dalle gambe, così, per ricordare meglio come mi fossi conciata quella mattina - sapete, la fretta!
Niente scollature profonde. Niente minigonne o gonne in genere. Niente tacchi. Un paio di jeans qualunque e una maglietta a maniche corte bella colorata.
"Be', sì, non è che devo andare a sfilare, va più che bene".
"Ma è il tuo primo giorno di lavoro. Pensavo volessi fare buona impressione, tutto qui.", giustificò così la propria domanda, facendo spallucce e ripartendo al verde del semaforo.
Mi ci volle qualche secondo prima di metabolizzare la cosa. Avevo sentito benissimo, di quello ne ero certa. Era inutile riporle la domanda. E, tra l'altro, proprio in quel momento, l'auto stava superando tranquillamente il viale della mia scuola, diretta verso la città confinante.
"Lavoro eh? Già…" mormorai fra me e me, stringendomi fra le spalle e appoggiando la fronte al vetro freddo del finestrino. Magari sarebbe servito a rinfrescarmi la memoria.
Be', continuai a fare finta di niente, come se l'atteggiamento di mia madre non sconfinasse oltre i limiti della sanità mentale. Io, dal canto mio, non avevo alcuna voglia di rivedere i professori e fingere, alle loro inevitabili domande, di aver studiato tutto e aver svolto tutti i compiti. E diciamocelo, l'idea di saltare l'ultimo, tremendo anno di liceo era davvero allettante. Avrei rivisto volentieri i miei compagni di classe, ma sarebbero stati lì anche il giorno successivo, e quello dopo, e per molto tempo ancora. O magari anche i loro, di genitori, si erano svegliati rincitrulliti e avevano fatto far loro qualcos'altro.
"Beh, bello aver finito la scuola, eh? Il diploma…", smorzai un sorrisetto sulle labbra e lo rivolsi, in quello che mi era sembrato il modo più brillante, a mia madre, sperando di non aver sbagliato approccio.
"Sì" rispose semplicemente, "avresti potuto fare di meglio che sessantadue alla maturità, ma va bene lo stesso, io e papà sapevamo che ce l'avresti fatta senza perdere nessun anno.", confidò qualche istante dopo.
Il mio sorriso vacillò e mi sentii costretta a fingere di rivolgere l'attenzione alle macchine che viaggiavano accanto a noi, mentre i Ringo nel mio stomaco si agitavano pericolosamente.
Freccia a destra. Rallentò. Accostò.
"Eccoci qui" mormorò lei mentre mi guardavo attorno, studiando tutti i negozi del giro di una trentina di metri. Era una via di case vecchie, abbastanza desolata, di quelle dove ci passano a far fare i bisogni al cane sicuri che poi possono lasciare tutto lì, tanto nessuno verrà a mai controllare.
Salutai mia madre. Scesi dalla macchina. Ogni movimento, ogni parola era particolarmente lenta. O forse era solo una mia impressione. Lei ripartì nell'istante in cui chiusi la portiera, lasciandomi sola nella mia nuova, strana vita parallela. Bah, roba da film americani. Comunque, ricapitolando le poche informazioni strappate di nascosto, avevo finito il liceo senza venire bocciata. Quindi non avevo potuto redimermi e, sicuramente, iniziare a studiare di mia iniziativa. Sarà stato solo uno dei buoni propositi per l'anno nuovo. Ero uscita con sessantadue, una voglia di studiare rasente allo zero e avrò preferito andare diretta al lavoro.
Chissà che le cose non possano andare meglio in questo modo! Trassi un bel respiro profondo a occhi chiusi, e mi sentii pronta a buttarmi nella nuova vita. Ed evidentemente lei stessa era un po' impaziente di venirmi incontro, infatti in un attimo una ragazza, dopo un rapido saluto, mi aveva subito trascinata nel negozio accanto al portone davanti a cui mi ero fermata.
"Cosa ci facevi lì fuori? Dormivi in piedi? Non è poi così tanto presto! Forza, mettiti la maglietta della divisa che devo farti imparare tutto alla svelta".
È inutile a questo punto che mi perda in dettagli. Trascorsi più di metà mattinata a pulire scaffali e pavimenti, nel negozio e nel magazzino. Il resto del tempo attaccai cartellini alle magliette e cercai di capire il modo esatto di piegarle, perché, chiaramente, il modo in cui l'avevo fatto per diciannove anni non andava bene. Per pranzo mangiai un panino freddo dall'aria stantia che avevo rimediato nel bar affianco.
Nel pomeriggio stetti alla cassa a battere un paio di conti e a guardare le altre mie due colleghe che si davano da fare con i pochi clienti che arrivavano. Parliamoci chiaro, io non mi sono mai immaginata come commessa in un negozio di abbigliamento, ma considerato il poco buon gusto che avevo era chiaro che quello non sarebbe nemmeno stato il settore dove avrei voluto inserirmi. Probabilmente non sarò riuscita a trovare nessun altro lavoro più adatto a me.
Il negozio chiuse alle sette di sera e fra autobus e metropolitana non sarei riuscita ad arrivare a casa prima delle otto e mezza. Volli approfittarne per chiamare il mio ragazzo, che ancora non si era fatto vivo per tutta la giornata, e qualche amico così da organizzare la serata e capire di più la situazione. Scorsi la rubrica del cellulare diverse volte ma i nomi dei miei amici, e soprattutto amiche, più importanti non c'erano o non rispondevano alle mie chiamate. E, oltretutto, il numero del mio ragazzo non era salvato. Lo digitai, cifra per cifra, nemmeno un viaggio in una realtà parallela me lo avrebbe fatto dimenticare.
Il suo tono distaccato nel rispondere mi irrigidì, ma non mi fece desistere. Gli dissi chi ero, magari dalla voce non mi aveva riconosciuta, il rumore delle auto disturbava la conversazione. Senza attendere nessuna sua risposta, senza dargli il tempo di interrompermi, gli chiesi della sua giornata e se riusciva a uscire più tardi; gli dissi che mi mancava e che avevo davvero bisogno di vederlo. Riagganciò, liquidandomi con un semplice: "Scusi, ha sbagliato numero".
Certo, se non fossi stata bocciata in quarta sarei andata a studiare per una settimana a Londra, stando via anche e soprattutto quella sera in cui lo incontrai quasi per caso. E se non fossi stata bocciata non avrei conosciuto nemmeno i miei altri compagni di classe, quelli cui mi sono affezionata di più. E, probabilmente, soffocata dalla pigrizia da cui non riuscivo a cavarmi fuori, non avrei nemmeno coltivato le amicizie di vecchia data. Insomma, in questa nuova realtà avevo un titolo di studio che difficilmente mi avrebbe portata da qualche parte, un lavoro che mi faceva schifo, dei probabili amici di cui non mi interessava nemmeno fare conoscenza, non avevo un ragazzo - o anche se ce l'avevo era un disgraziato, per non usare altri termini, visto che non si era fatto sentire tutto il giorno.
In compenso, c'era il fatto che ero uscita da scuola nell'anno giusto. Alla faccia della fortuna!
Arrivata a casa mangiai un pezzo di pane e mi buttai sul letto. Avevo bisogno di riposare. Fu una notte particolarmente agitata. Continuavo a girarmi fra le lenzuola e a svegliarmi. Come biasimarmi dopo una giornata così? Non sapevo più se volevo che si facesse mattina al più presto o se volevo continuare a dormire fino a quando i miei muscoli non si sarebbero atrofizzati abbastanza da non reggermi in piedi.
"Bella addormentata, svegliati!", mia madre mi chiamava di nuovo mentre mio padre le dava man forte alzando la tapparella della mia camera per far entrare un po' di luce.
Anche quel giorno mi rifugiai sotto il cuscino. No, davvero. Non volevo alzarmi. Quella volta no, sarei rimasta lì. Non avrei sopportato un'altra giornata come quella precedente. "No" dissi solamente, con la voce soffocata dal cuscino. In pochi istanti sentii i passi di mia madre avvicinarsi.
"Dai, alzati! Forza, che se no per accompagnarti a scuola quel santo del tuo ragazzo finirà per far tardi al lavoro! Devi fare il quinto anno di liceo, mica di elementare, non puoi fare ancora tutte queste storie per svegliarti la mattina!"


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010