Oggi… a Parigi
Migliaia e migliaia di anni
Non basterebbero
Per dire
Il minuscolo secondo d'eternità
In cui tu m'hai abbracciato
In cui io t'ho abbracciato
Il Giardino, Jacques Prévert
Oggi… il sole mi abbaglia dal finestrino, banchi di nuvole soffici e leggere attraversano la mia visuale della terra sottostante. L'aereo si prepara ad atterrare e la voce del pilota ci accompagna nella discesa, rapida e lenta, al ritmo dei battiti del mio cuore. Le porte si aprono, le scalette in posizione, le hostess mi augurano una buona permanenza. Un ringraziamento, un sorriso, un solo passo e il vento mi scompiglia i capelli, il riverbero del sole mi acceca e il profumo della primavera parigina mi riempie le narici. Respiro forte, felice di essere arrivata, felice di dare sfogo finalmente al trillo incessante del mio cuore, al fruscio che nella caverna dei miei polmoni accelera e accelera e accelera…
Charles De Gaulle, l'aeroporto di Parigi, mi guarda come se mi desse il benvenuto, chiedendomi di non andarmene, di restare per sempre… beh, è quello che farò almeno per un po'.
La mia valigia mi aspetta, il taxi si avvia verso il quartiere di Saint Paul, dove ho affittato una piccola mansarda all'ultimo piano di un palazzo relativamente moderno, per quanto possa essere moderna Parigi. La padrona di casa, che abita in un appartamento al piano di sotto, mi sta aspettando per darmi le chiavi; mi offre un caffè ma io rifiuto, non ho proprio tempo per fermarmi.
Mi augura buona permanenza e mi lascia sola. Apro la porta di casa, do un'occhiata in giro e vedo che è tutto pulito e ordinato come promesso, ma non mi interessa più di tanto: oggi ho ben altro a cui pensare. Mollo la valigia nella cameretta, chiudo a chiave la porta di casa e scendo per la strada.
Finalmente sola. Finalmente arrivata. Il sole guida i miei piedi verso l'Île Saint Michel, percorrendo il lungofiume sulla Senna fino alla cattedrale di Notre Dame. Non ho portato la macchina fotografica, le foto le ho già fatte nel corso dei miei viaggi qui, conosco bene la città, ma ammetto che nonostante ci sia stata molte volte l'emozione di rivedere questi posti mi ferma il respiro. Anche questa volta, davanti a tutta la maestà della Cattedrale, non fa eccezione: le gargouilles, le guglie appuntite, le decorazione gotiche che ne riempiono la facciata; non so mai per quanto tempo rimango lì a fissare i monumenti che amo di più di questa città, ma ogni volta è come se fosse la prima. Respiro il profumo delle rose e chiudo gli occhi, assaporando ogni secondo di quello che mi sembra un nuovo "Bentornata": è Parigi che cammina con me, che respira con me, che vive con me.
A un tratto, lì insieme a me, in quella piazza, davanti alla magnificenza della cattedrale di Notre Dame, sento qualcosa, qualcosa che non avevo mai sentito prima a Parigi: una presenza lieve, leggera, impalpabile, che solo io posso avvertire, che mi culla teneramente, distinguendosi di poco dalla dolce brezza primaverile che soffia tra i miei vestiti. Sorrido tenendo gli occhi chiusi, aprirli non servirebbe a niente, tanto non potrei vederla, ma io so ugualmente chi è; la sua immagine è scolpita nella mia memoria nei minimi dettagli. L'indomabile nube di capelli rossi non sfuggiva all'attenzione quand'era viva e non sfugge nemmeno adesso, ne sento quasi la carezza sulla pelle.
Lei era la mia madrina, una persona eccezionale che io consideravo e considero una seconda madre. Quand'era viva avevamo viaggiato molto insieme, e così dopo che se n'era andata avvertivo la sua presenza in varie occasioni, soprattutto quando viaggiavo. Era diventata una cosa così normale che ormai mi stupivo di non sentirla. Mi aveva accompagnata a Londra, a Vienna, a Ginevra, a Praga, a New York, ma a Parigi mai.
Erano anni ormai che non facevo più viaggi così lunghi: per qualche tempo avevo fatto solo qualche fine settimana ogni tanto, e nell'ultimo paio d'anni non avevo toccato un aereo. Era da molto tempo che non viaggiavo e molto tempo che non avvertivo più la sua presenza. Quel candido bacio velato dall'aria mattutina mi diede una scossa che mai avrei creduto possibile, la stessa scossa di quando, più di dieci anni prima, avevo sentito lo stesso bacio al cimitero, mentre la interravano. La gioia di averla di nuovo accanto mi fece gonfiare di emozione e di orgoglio: allora non si era dimenticata di me, così come io non mi sono mai dimenticata di lei.
"Ciao" le dico col pensiero. "È bello risentirti".
Non posso vederla, ma so che nella sua trasparenza e incorporeità sta sorridendo.
Apro gli occhi e, con un'ultima occhiata alla Cattedrale, torno sui miei passi; la mia idea è di percorrere Rue de Rivoli e arrivare al Louvre, per poi passare al Musée d'Orsay, a Place de la Concorde, percorrere l'Avenue des Champs Elysées, arrivare all'Arco di Trionfo e poi ridiscendere per l'Avenue Kleber fino al Trocadero e alla mia amata Tour Eiffel, per salutare di nuovo tutti i miei monumenti preferiti. So che ci metterò tutta la giornata, ma non me ne importa; è il rito che faccio ogni volta che vengo qui e nella programmazione del mio viaggio c'era già questa piccola digressione tra i ricordi. Non faccio in tempo a muovere un passo che sento un cambiamento nell'aria e avverto la sua mano leggera appoggiarsi sulla mia spalla. Sì, di nuovo l'abitudine… è così che mi accompagna, sempre, per farmi sentire che c'è.
La luce cambia, il sole si sposta, il cielo imbrunisce e poi si scurisce, ma io continuo sempre a camminare con la mano della mia accompagnatrice sulla spalla, fermandomi ora qui ora là per guardare, respirare, toccare qualcosa di particolare che prima non c'era, o che c'è sempre stato e voglio ricordare.
Ormai sono alla fine del mio percorso, sul Pont d'Iena, e sto guardando il cielo cobalto farsi sempre più scuro dietro una Tour Eiffel che comincia a illuminarsi. Mi avvicino, sempre di più, fino a ritrovarmi proprio sotto la torre, con una mano appoggiata a uno dei pilastri che la sorreggono, ad ammirare il groviglio di travi che la compongono. L'illuminazione fa quasi male agli occhi. Batto qualche colpetto con la mano su una delle travi, come se salutassi una vecchia amica. In fondo penso che lo sia sempre stata, un'amica: la mia amica elegante e maestosa, ieratica e immobile, la mia amica parigina che ogni volta che torno è bello ritrovare.
Guardo l'orologio. Le nove e un quarto, è ora di tornare indietro. Ripercorro i miei passi riattraversando la Senna sulla Passerelle Debilly per prendere il batobus fino alla Sainte Chapelle. Poi farò un pezzo a piedi fino a casa, non è tanta strada.
Mentre pago il biglietto sento la mano leggera stringermi un pochino più forte la spalla. Ringrazio il bigliettaio e salgo sul batobus, avviandomi verso i posti a sedere scoperti. Anche a quest'ora c'è molta gente, ma non ci faccio caso. Mi poso la mano sulla stessa spalla dove sento quella di lei, quasi a volergliela stringere. È stata una bella giornata, anche grazie a lei.
"Grazie di essere qui", le sussurro piano. Dal leggero solletico che sento sulla guancia capisco che mi ha sentita. Mi sembra quasi di percepire la sua risposta, persino da viva la conoscevo talmente bene che so esattamente cosa sta pensando adesso: "Non sono io, è Parigi che è bella". Sorrido alla notte parigina come se sorridessi a lei e mi siedo ad ammirare la città che amo tanto accarezzarmi i fianchi. "Eh sì, cara, Parigi è proprio bellissima".
Sarò a casa tra un'oretta.
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