Pallinov
Non posso fare a meno di incominciare questo mio componimento con un'osservazione tanto ovvia quanto abusata, riguardante l'avvicinarsi ormai del terzo millennio, con tutto il fardello di sproloqui e disquisizioni più o meno dotte riguardanti gli aspetti filosofici di questo avvenimento. Anche io, nel mio piccolo, ho voluto riflettere sul suo significato, per il fatto che la razza umana (ed ancor di più la cultura occidentale) sembra progredire in modo bizzarro, due passi avanti ed uno indietro. Ecco allora che nessuna circostanza è più favorevole per ripercorrere le conquiste della mente umana nel corso della Storia. L'esperienza c'insegna che nessuno strumento è mai stato così raffinato come il cervello umano per capire il mondo che ci circonda, le leggi della natura, l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande. Eppure, questo cumulo di neuroni in apparenza onnipotente si è sempre scontrato contro il muro della comprensione di sé. Come direbbe il mio professore di filosofia, la Natura che diventa cosciente di sé solo a livello empirico.
Mi voglio spingere ancora oltre: ci sono stati grandi esperimenti che hanno segnato straordinari successi nella scienza, rendendo il nostro viaggio su questo mondo sempre più agevole (se non frenetico), sempre più sicuro e più comodo. È sempre grazie a questi esperimenti se oggi abbiamo in cucina il forno a microonde, e magari lo usiamo senza sapere di dover ringraziare un giovincello inglese che, nella seconda metà del secolo scorso, andava pazzo per delle strane scintille emesse da corpi strofinati.
Tante conquiste, dicevo, ma in che direzione? Siamo arrivati alle soglie del terzo millennio, ed ancora non sappiamo nulla di noi stessi. Meglio, sappiamo molto sul corpo in cui viviamo, nulla della nostra mente, delle nostre emozioni, dei nostri pensieri; nulla di quello che Fichte ha chiamato l'Io (permettetemi questa spacconata, del resto è così che si fanno contenti i professori, e con il tempo ci si abitua), e che ci distingue dagli altri esseri viventi.
Il significato stesso di morte ci è estraneo, almeno a livello trascendente, e se non bastano le risposte delle varie religioni (ci si ricordi che, ad esempio, la dottrina della metempsicosi ha solidissime radici semi-scientifiche), potremmo liquidare la questione convincendoci che non è il caso di guastarsi il pomeriggio a rifletterci sopra. Chi potrebbe asserire con sicurezza qual è l'organo dove risiede l'anima? E cosa capita alla stessa una volta passati a miglior vita?
Non sono domande da poco; anzi, probabilmente buona parte di coloro che leggeranno il mio tema si chiederanno se è il caso che un ragazzo non ancora maggiorenne pensi a queste cose piuttosto che ai goal di Ronaldo. Il fatto è che tutto ciò ha preso il posto del fuoriclasse brasiliano nella mia mente in seguito alla lettura di un romanzo, talmente profondo nella sua semplicità che mi ha fatto davvero vivere un'esperienza fondamentale.
Vorrei premettere che, a dire la verità, io non considero affatto tale opera un romanzo. Sarei propenso a classificarlo più come un racconto lungo. Questo perché i protagonisti sono solo due, ci sono in tutto una mezza dozzina di personaggi secondari e la narrazione avviene in modo lineare, quasi noioso, come un resoconto sterile. Quello che si dice un libro semplice! Nessun colpo di scena, nessun mutamento di ambientazione, il lettore sa cosa succederà due pagine prima e fa fatica a simpatizzare per qualcuno. Prima che mi si accusi di sadismo, però, è opportuno che dica di cosa sto parlando. Il testo è Cuore di cane, composto dal grande scrittore russo Michail Bulgakov.
Chi ha letto il libro e conosce l'autore sarà senza dubbio a conoscenza delle posizioni radicalmente anticomuniste del nostro, e di come in tutti i suoi scritti si manifestino le tematiche da apologia della controrivoluzione; una rapida scorsa alla cronologia della vita potrà rivelare come Bulgakov fu perseguitato dal regime e di come dovette arrangiarsi per non morire di fame. In questo senso Le uova fatali potrà essere adotto come esempio autobiografico. Purtroppo è mia intenzione non soffermarmi su questi aspetti, poiché esulano un po' dai concetti esposti sopra. Inoltre, è il caso di dirlo, la situazione della Russia ai primi del secolo non è così immediata da poterci riflettere semplicemente leggendo un romanzo, quindi mi si perdoni tale trascuratezza e passiamo oltre.
Tema unico del racconto è un esperimento. Uno di quelli che ho citato prima, uno di quelli che fanno compiere all'umanità un prodigioso balzo in avanti. Uno di quelli che qualsiasi chirurgo non troppo sano di mente avrebbe voluto compiere almeno una volta nella vita. Figuriamoci poi nella Mosca degli anni '20, quando l'autorizzazione per la pazzia sembrava normale come un certificato di nascita. Il nostro protagonista, come il titolo potrebbe fare intuire, è un bel cagnone di razza non specificata che di mestiere fa il vagabondo. Con un lavoro così è d'obbligo essere ben svegli ed astuti, ed in un paese grande come la capitale russa non è facile trovare da mangiare. Ecco quindi aggiunte due qualità al randagio perdigiorno, che di nome fa Pallino. È un nome naturalmente che gli hanno appioppato, deve essere la traduzione dal russo di Fido. Il nostro cane comunque ha una caratteristica davvero non insignificante della quale ci si accorge subito: pensa. Non è certo lo stream of consciousness di Joyce, né sono i ragionamenti di un fisico nucleare; però pensa, e si arrabbia anche. Oppure è triste. Insomma, sarebbe davvero un uomo questo cane, a parte la differenza di razza. Il fatto è che i cani quando hanno fame, non possono cercare un impiego, si devono arrangiare. E quando, come nel caso di Pallino, un benefattore si avvicina con un salame di aglio appena comprato, non ti interessa di farti adescare: lo segui e basta. Più ti dà da mangiare, più sei riconoscente, e dopo l'ultima fetta ci si ritrova in casa del misterioso essere umano così gentile, con l'intenzione di leccargli i piedi tutti i giorni pur di avere un pasto regolare. Ragiona in questo modo il nostro Pallino, non sapendo cosa lo aspetterà.
La caratteristica un po' truce del racconto infatti si rivela quando si fa la conoscenza del professor Filipp Filippovic Preobrazenskij, novello barone di Frankestein. Il professore è un chirurgo di fama mondiale, opera nel suo appartamento da sette stanze e riceve esclusivamente clienti particolarmente dotati di possibilità economiche. Il suo vero interesse, però, non è il denaro, anche se apprezza il buon cibo e non disdegna di innaffiarsi la gola con della ottima vodka.
Il cane ed il padrone: ecco in sintesi la vita in casa Preobrazenskij dei rapporti tra uomini e bestie. Vita sicuramente agiata per Pallino, rimpinzato di ogni ben di Dio apparentemente per la sua innata bellezza di cane. Il fattaccio avviene quando l'aiuto del dottore, lo zelante Bormental, arriva trafelato una sera portando un cadavere di un uomo morto da poco. Perché? Si chiedono ad un tempo il cane ed i lettori. La risposta è subito pronta: per dare inizio al più grande esperimento della storia della medicina e forse dell'umanità. Trapiantare l'ipofisi umana, considerata la sede dell'anima, al posto di quella di una cane, ed aspettare il risultato. Perché no? Si era domandato il bravo chirurgo. Ci sarebbe potuto riuscire, nulla lo impediva, di sicuro non era impossibile trapiantare mente e genitali umani in uno dei tanti cani randagi che gremivano le vie di Mosca.
Detto fatto. Un'operazione, e Pallino diventa Pallinov, l'animale diventa uomo, il miracolo si compie. Il tempo passa, il cane comincia a parlare, si erge sulle zampe posteriori, fuma, usa il bagno degli uomini e si lamenta se non gli lasciano bere troppa vodka.
Forse l'esperimento non riesce alla perfezione: Pallino era un cane simpatico, non di razza ma intelligente, non mansueto ma affezionato al suo padrone. Pallinov, invece, è bugiardo, ingrato, arrogante; in lui rimane il ladro cui erano appartenuti gli organi trapiantati. Sotto l'anonimo cielo di Mosca, questo ibrido dall'origine oscura viene corteggiato, ammaestrato, integrato nella società dai membri del partito, che addirittura la spingono contro il suo creatore. Al quale non resta altro da fare che riportare tutto allo stato iniziale delle cose, reinserendo l'ipofisi originaria nel cane.
Credo che a nessuno, tra tutti coloro che hanno avuto la fortuna di leggere questo racconto, non sia sorto un dubbio: dopo la prima operazione, dopo la metamorfosi, dove va a finire Pallino?
Possibile che il suo io sia rimasto nell'ipofisi asportata nell'intervento? Possibile che sia continuato a vivere in un organo conservato in una soluzione chimica? Possibile che ci sia vita in un ammasso di cellule inerti?
No, certo che no.
Il segreto è proprio questo. Come scrive Bulgakov nelle ultime pagine, quasi a volersi giustificare insieme con il protagonista, sul vero significato di essere vivi: "Professore, non quando il cane era cane, ma quando il cane era già uomo."
"Cioè di quando il cane parlava? Di quando il cane sembrava un essere umano? Mio caro signore, parlare non significa essere uomo. Sembrare non significa essere. Del resto, questo conta poco".
Conta davvero poco l'apparenza. Conta davvero poco che la Sottosezione abbia assunto qualcosa in cui i più si ostinavano a vedere un uomo. E soprattutto conta davvero poco che la forma sia quella di un uomo, quando i ricordi sono i ricordi di un cane.
Cosa ci vuole comunicare Bulgakov, lui che in vita era stato davvero un medico famoso e rispettato. Il finale apparentemente ironico e spiritoso nasconde in realtà una ben più amara considerazione, cui probabilmente l'uomo arriverà con molta fatica.
Pallino vive nel cuore di Pallinov. La vera vita è nel cuore, ma il cuore del ladro è morto; i pensieri e i ricordi che riaffiorano pian piano sono quindi quelli di un uomo dimenticato, sono l'ultimo tentativo, l'ultimo segno di un forte attaccamento alla vita, che la mente di un essere umano non può fare a meno di manifestare. Di lui vi sono i pensieri, ma non il soffio vitale. Chi vive veramente è Pallino: la sua vita infatti è nel cuore che continua a battere nel corpo di un estraneo. Il suo è uno spirito in potenza, che giace senza la possibilità di esprimersi nel petto di un umano. Nell'animale non vi sono i pensieri, ma il suo soffio vitale continua ad ululare, alla fredda luna di Mosca, come all'inizio del racconto.
Pallino rappresenta noi stessi, come siamo dentro, il nostro vero istinto; spesso questo nostro volto è coperto dalla maschera della razionalità, forse per paura di mostrarci troppo, forse per assumere un più serio contegno, forse ancora per portarci sullo stesso piano di chi ci circonda. Questa maschera però ci zittisce, ci soffoca, ci fa soffrire e noi non riusciamo a toglierla, se non in momenti intensi e profondi come la gioia, il pianto, la morte.
L'anima fredda, l'anima intelligente, l'anima logica e sensata; l'anima che ci consiglia cosa fare e quando agire, l'anima che ci presenta la meta e il modo con cui conseguirla: perfezione assoluta che forse troppo spesso ascoltiamo e seguiamo.
Dovremmo invece ricordarci che esiste un'altra parte di noi: uno spirito fatto di amore, di calore, di desiderio; uno spirito che non ci fa da guida nella vita camminando davanti a noi, ma ci afferra per mano, ed è l'essenza stessa del nostro essere. Forse è questo io meno razionale ma più naturale che dovremmo per un attimo fermarci ad ascoltare perché sede dei nostri sentimenti, delle nostre aspirazioni, delle passioni che ci scaldano il cuore.
Forse possiamo cercare di mettere a tacere la forza con cui queste ci si presentano; ma questa forza continuerà a vivere, a chiamarci, ad aspettare il momento opportuno per riaffiorare e presentare finalmente il nostro volto e il nostro io e chi veramente siamo. Come sono vane le cose per cui ci affanniamo. Come teniamo veramente poco ai valori che dovrebbero invece essere le fondamenta della nostra vita. E così ci stiamo sempre di più allontanando dalla meta, stiamo camminando nella direzione sbagliata, alle soglie del terzo millennio, quando il percorso dovrebbe essere inverso. Non fuori, ma dentro. Dentro di noi.
È cosi che Pallinov è ridiventato Pallino: ritrovando il suo cuore di cane.
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